Da sempre, nell’immaginario comune, la grande città è stata sinonimo di opportunità, di possibilità di realizzazione personale e di incontro tra culture differenti. A seconda delle epoche però, tali promesse finivano con l’esser mantenute, permettendo ai “nuovi cittadini” di stabilirsi e integrarsi nel nuovo contesto socio culturale, oppure tradite, finendo così col trasformare i nuovi arrivati in emarginati sociali. La città è dunque al contempo un interessante luogo di incontro e possibile integrazione ma anche un forte mezzo di emarginazione ed esclusione sociale. Ciò che nei secoli si è andato modificando sempre più però è il modo di reagire a tale meccanismo di separazione e segregazione. La presenza del povero, dell’emarginato, ha da sempre portato a meccanismi di messa in sicurezza da parte del resto della società, intimorita da tali soggetti. Il povero, come il diverso, era visto in passato come portatore del male. O meglio, il male, come ad esempio eventi epidemici, cui bisognava trovare giustificazione, veniva di volta in volta associato a persone non integrate nella società come mendicanti e stranieri. Il timore che tali soggetti potessero contagiare fisicamente o anche solo molestare la serenità mentale del viver quotidiano della società civile ben integrata ha portato a diverse tipologie di segregazione del diverso: dai lazzaretti quattrocenteschi, alle workhouse londinesi del primo ottocento fino ad arrivare a dinamiche di esclusione della popolazione meno abbiente dai centri storici e direzionali delle città tramite gli odierni meccanismi di rendita fondiaria. Oggi tali meccanismi si fanno sempre più evidenti e le disuguaglianze sociali non possono più esser relegate ai margini delle città o in luoghi che celino tali sconvenienti situazioni. Come afferma Secchi, una “nuova questione urbana” si presenta con prepotenza. Gli urbanisti e gli architetti sono stati in passato complici dell’acuirsi di tali disuguaglianze sociali che finiscono col manifestarsi oggi in sempre più evidenti disuguaglianze spaziali all’interno della città. Sono dunque gli stessi urbanisti e architetti ad avere una grande responsabilità nell’arduo tentativo, se non di ridurre, almeno di evitare che aumentino ancor più tali divari. Al momento i meccanismi di segregazione in ogni parte del mondo sono i più svariati: da un lato troviamo fenomeni di insediamenti spontanei in aree “problematiche” delle città, ovvero aree scartate dalla rendita fondiaria perché pericolose sotto diversi aspetti (confinanti con rumorose ed inquinanti infrastrutture autostradali o ferroviarie, a rischio di inondazione o geologicamente instabili). Dall’altro troviamo la crescente formazione delle cosiddette gated communities: piccoli recinti di vita apparentemente perfetta, in cui l’accesso è concesso solo ad individui che rispondono a determinati standards di reddito, istruzione e stile di vita. Oppure ancora la massimizzazione dell’individualismo ha portato ad abitare in villette con giardino, chiuse in sé stesse e facenti sempre più parte di un altro preoccupante fenomeno di non troppo recente comparsa, ovvero la città diffusa. Ma come afferma Friedman ne L’architettura di sopravvivenza, tali disuguaglianze non possono che aumentare e la povertà non può che avere la meglio in un mondo in cui le risorse sono limitate. Ciò porta la riflessione su un altro fronte e le responsabilità dell’architetto si fanno sempre più importanti. Un interessante concetto cui Friedman fa riferimento nel suo testo, è quello di “capacità critica” di un gruppo, ovvero quella grandezza limite oltre la quale un gruppo non è più in grado di soddisfare le proprie necessità o non è più in grado di reagire prontamente alle difficoltà che si presentano. Secondo Friedman è quello che accade alle nostre grandi città, in cui il numero degli individui è tale da non permettere alle istituzioni di rispondere in modo efficiente al crescente bisogno di servizi. In tale situazione gli individui finiscono col sentirsi abbandonati a sé stessi, non ottengono ciò che è loro di diritto ma continuano a pagare per dei servizi inefficienti o addirittura inesistenti. Il passo successivo secondo Friedman sarà la costituzione di gruppi organizzati che cominceranno a provvedere da sé alle proprie necessità. Ed è proprio questo il principio che sta a fondamento degli insediamenti spontanei. La necessità ha portato gli individui emarginati dalla città a costituirsi in gruppi, a provvedere da sé ai bisogni primari della vita quotidiana, facendo a meno delle istituzioni. Sono questi dei veri e propri laboratori del futuro, poiché secondo Friedman: “la società povera esige l’uguaglianza e, spinta dalla necessità, dispiega un’ingegnosità tecnica eccezionale. E’ la società del mondo povero che sta inventando l’architettura di sopravvivenza” . Sempre più nelle grandi città dei Paesi in via di sviluppo si formano ex novo o vanno crescendo tali insediamenti. Luoghi in cui la pianificazione, urbanistica e architettonica, è assente. Architettura informale, insediamenti spontanei, sono queste alcune delle definizioni che di volta in volta sono state attribuite alle favelas brasiliane, agli slums asiatici o africani, alle villas miserias di Buenos Aires. In questi luoghi è interessante come le correnti concezioni di spazio pubblico e spazio privato trovino uno sviluppo che giunge quasi a sovvertirne l’importanza all’interno della vita di un individuo. Si condivide pienamente l’opinione di Mazzanti quando afferma che una delle principali ambizioni che deve porsi un architetto nella progettazione di uno spazio è quella di realizzarne uno che incoraggi “forme partecipative di uso comunitario”. Ancor prima di pensare spazi esteticamente e architettonicamente compiuti, bisogna pensare a come render quegli spazi fruibili da diverse tipologie di individui con diverse necessità e diversi backgrounds culturali. Realizzare addirittura degli spazi che riescano ad innescare fenomeni di inclusione sociale, questa deve esser la massima aspirazione. Nel corso dei mesi trascorsi all’estero si è studiato e approfondito il fenomeno degli abitati informali, in particolare per come il tema si declina nel contesto argentino e nella città di Buenos Aires. A Buenos Aires è stata selezionata come area di intervento l’abitato informale riconosciuto con il nome di Playón de Chacarita o Villa Fraga. Una volta selezionata l’area di intervento si sono presi contatti con il Colectivo por la Igualdad, organizzazione politica che lavora nella Villa dal 2009. In seguito ad un’indagine condotta sul campo e alla raccolta delle informazioni utili alla comprensione delle dinamiche sociali ed economiche, oltre che di quelle morfo-tipologiche dell’area, si è proceduto alla formulazione di un’ipotesi progettuale che tenga conto del ruolo dello spazio pubblico e della sua relazione con il tessuto informale esistente, che sappia valorizzare le potenzialità di processi di rigenerazione all’interno della villa miseria. Si è deciso di intervenire ad una scala più ampia prendendo in considerazione la stesura di un progetto per il ridisegno della nuova Stazione Lacroze e della piazza adiacente ed un sistema lineare che preveda la presenza di due piazze pubbliche connesse da un parco sul quale si affacciano i nuovi complessi residenziali. Ne è derivato un Masterplan in cui vengono consolidate le due manzanas della Villa facendo ricorso, quando necessario, ad un nuovo tessuto residenziale che non si allontana eccessivamente dalla scala dell’abitato esistente; si individuano due testate con piazze pubbliche e funzioni basate sull’integrazione sociale dei villeros su Av. Lacroze (una piazza-mercato) ed un centro multifunzionale che coordina le attività ospitate dai laboratori su Av. Elcano (spazi di lavoro, nuova mensa comunitaria e centro di sostegno per madri e famiglie). Un parco lineare collega infine le due testate. La tesi è stata elaborata con la collaborazione del gruppo di ricerca coordinato dal prof. arch. Javier Fernandez Castro e seguita in qualità di relatore dal prof. arch. Marco Bovati (ricercatore TD in Composizione Architettonica e Urbana - DAStU) e in qualità di co-relatore dall’arch. Ester Dedé (dottoranda in Architettura, Urbanistica e Conservazione dei luoghi dell’abitare e del paesaggio – DAStU). Nei capitoli che seguono si indagherà il fenomeno degli abitati informali, nelle loro caratteristiche generali e nelle modalità in cui il fenomeno si è diffuso e continua a diffondersi ancora ai nostri giorni, facendo anche riferimento ai diversi approcci statali e comunitari adottati col trascorrere dei decenni. Si passerà poi ad una breve storia della Città di Buenos Aires ed all’analisi delle dinamiche che hanno portato alla formazione di numerosi insediamenti informali all’interno della Capitale argentina. Seguirà un intero capitolo sull’analisi di casi studio progettuali, tre progetti latinoamericani, di cui due in attuale concretizzazione, che si pongono l’obiettivo di riurbanizzare e rigenerare in questo modo interi settori di città. Verranno dunque presentati i casi studio di Mi Favela Barrio di Jorge Mario Jáuregui ed i due progetti di urbanizzazione delle Villas 31 e 21-24 di Javier Fernandez Castro. Si giungerà infine all’analisi dell’area di progetto assegnata in loco ed alla proposta progettuale sviluppata nell’ambito della redazione di questo lavoro. Alla fine è anche possibile trovare in allegato la trascrizione e traduzione di alcune delle interviste effettuate in loco. Esse si sono rivelate fondamentali per comprendere a pieno il fenomeno delle villas miseras e le dinamiche ad esse connesse.

Progetto di rigenerazione architettonica e urbana di una villa miseria di Buenos Aires : Playón Chacarita, Villa Fraga

SALAMONE, ALICE
2013/2014

Abstract

Da sempre, nell’immaginario comune, la grande città è stata sinonimo di opportunità, di possibilità di realizzazione personale e di incontro tra culture differenti. A seconda delle epoche però, tali promesse finivano con l’esser mantenute, permettendo ai “nuovi cittadini” di stabilirsi e integrarsi nel nuovo contesto socio culturale, oppure tradite, finendo così col trasformare i nuovi arrivati in emarginati sociali. La città è dunque al contempo un interessante luogo di incontro e possibile integrazione ma anche un forte mezzo di emarginazione ed esclusione sociale. Ciò che nei secoli si è andato modificando sempre più però è il modo di reagire a tale meccanismo di separazione e segregazione. La presenza del povero, dell’emarginato, ha da sempre portato a meccanismi di messa in sicurezza da parte del resto della società, intimorita da tali soggetti. Il povero, come il diverso, era visto in passato come portatore del male. O meglio, il male, come ad esempio eventi epidemici, cui bisognava trovare giustificazione, veniva di volta in volta associato a persone non integrate nella società come mendicanti e stranieri. Il timore che tali soggetti potessero contagiare fisicamente o anche solo molestare la serenità mentale del viver quotidiano della società civile ben integrata ha portato a diverse tipologie di segregazione del diverso: dai lazzaretti quattrocenteschi, alle workhouse londinesi del primo ottocento fino ad arrivare a dinamiche di esclusione della popolazione meno abbiente dai centri storici e direzionali delle città tramite gli odierni meccanismi di rendita fondiaria. Oggi tali meccanismi si fanno sempre più evidenti e le disuguaglianze sociali non possono più esser relegate ai margini delle città o in luoghi che celino tali sconvenienti situazioni. Come afferma Secchi, una “nuova questione urbana” si presenta con prepotenza. Gli urbanisti e gli architetti sono stati in passato complici dell’acuirsi di tali disuguaglianze sociali che finiscono col manifestarsi oggi in sempre più evidenti disuguaglianze spaziali all’interno della città. Sono dunque gli stessi urbanisti e architetti ad avere una grande responsabilità nell’arduo tentativo, se non di ridurre, almeno di evitare che aumentino ancor più tali divari. Al momento i meccanismi di segregazione in ogni parte del mondo sono i più svariati: da un lato troviamo fenomeni di insediamenti spontanei in aree “problematiche” delle città, ovvero aree scartate dalla rendita fondiaria perché pericolose sotto diversi aspetti (confinanti con rumorose ed inquinanti infrastrutture autostradali o ferroviarie, a rischio di inondazione o geologicamente instabili). Dall’altro troviamo la crescente formazione delle cosiddette gated communities: piccoli recinti di vita apparentemente perfetta, in cui l’accesso è concesso solo ad individui che rispondono a determinati standards di reddito, istruzione e stile di vita. Oppure ancora la massimizzazione dell’individualismo ha portato ad abitare in villette con giardino, chiuse in sé stesse e facenti sempre più parte di un altro preoccupante fenomeno di non troppo recente comparsa, ovvero la città diffusa. Ma come afferma Friedman ne L’architettura di sopravvivenza, tali disuguaglianze non possono che aumentare e la povertà non può che avere la meglio in un mondo in cui le risorse sono limitate. Ciò porta la riflessione su un altro fronte e le responsabilità dell’architetto si fanno sempre più importanti. Un interessante concetto cui Friedman fa riferimento nel suo testo, è quello di “capacità critica” di un gruppo, ovvero quella grandezza limite oltre la quale un gruppo non è più in grado di soddisfare le proprie necessità o non è più in grado di reagire prontamente alle difficoltà che si presentano. Secondo Friedman è quello che accade alle nostre grandi città, in cui il numero degli individui è tale da non permettere alle istituzioni di rispondere in modo efficiente al crescente bisogno di servizi. In tale situazione gli individui finiscono col sentirsi abbandonati a sé stessi, non ottengono ciò che è loro di diritto ma continuano a pagare per dei servizi inefficienti o addirittura inesistenti. Il passo successivo secondo Friedman sarà la costituzione di gruppi organizzati che cominceranno a provvedere da sé alle proprie necessità. Ed è proprio questo il principio che sta a fondamento degli insediamenti spontanei. La necessità ha portato gli individui emarginati dalla città a costituirsi in gruppi, a provvedere da sé ai bisogni primari della vita quotidiana, facendo a meno delle istituzioni. Sono questi dei veri e propri laboratori del futuro, poiché secondo Friedman: “la società povera esige l’uguaglianza e, spinta dalla necessità, dispiega un’ingegnosità tecnica eccezionale. E’ la società del mondo povero che sta inventando l’architettura di sopravvivenza” . Sempre più nelle grandi città dei Paesi in via di sviluppo si formano ex novo o vanno crescendo tali insediamenti. Luoghi in cui la pianificazione, urbanistica e architettonica, è assente. Architettura informale, insediamenti spontanei, sono queste alcune delle definizioni che di volta in volta sono state attribuite alle favelas brasiliane, agli slums asiatici o africani, alle villas miserias di Buenos Aires. In questi luoghi è interessante come le correnti concezioni di spazio pubblico e spazio privato trovino uno sviluppo che giunge quasi a sovvertirne l’importanza all’interno della vita di un individuo. Si condivide pienamente l’opinione di Mazzanti quando afferma che una delle principali ambizioni che deve porsi un architetto nella progettazione di uno spazio è quella di realizzarne uno che incoraggi “forme partecipative di uso comunitario”. Ancor prima di pensare spazi esteticamente e architettonicamente compiuti, bisogna pensare a come render quegli spazi fruibili da diverse tipologie di individui con diverse necessità e diversi backgrounds culturali. Realizzare addirittura degli spazi che riescano ad innescare fenomeni di inclusione sociale, questa deve esser la massima aspirazione. Nel corso dei mesi trascorsi all’estero si è studiato e approfondito il fenomeno degli abitati informali, in particolare per come il tema si declina nel contesto argentino e nella città di Buenos Aires. A Buenos Aires è stata selezionata come area di intervento l’abitato informale riconosciuto con il nome di Playón de Chacarita o Villa Fraga. Una volta selezionata l’area di intervento si sono presi contatti con il Colectivo por la Igualdad, organizzazione politica che lavora nella Villa dal 2009. In seguito ad un’indagine condotta sul campo e alla raccolta delle informazioni utili alla comprensione delle dinamiche sociali ed economiche, oltre che di quelle morfo-tipologiche dell’area, si è proceduto alla formulazione di un’ipotesi progettuale che tenga conto del ruolo dello spazio pubblico e della sua relazione con il tessuto informale esistente, che sappia valorizzare le potenzialità di processi di rigenerazione all’interno della villa miseria. Si è deciso di intervenire ad una scala più ampia prendendo in considerazione la stesura di un progetto per il ridisegno della nuova Stazione Lacroze e della piazza adiacente ed un sistema lineare che preveda la presenza di due piazze pubbliche connesse da un parco sul quale si affacciano i nuovi complessi residenziali. Ne è derivato un Masterplan in cui vengono consolidate le due manzanas della Villa facendo ricorso, quando necessario, ad un nuovo tessuto residenziale che non si allontana eccessivamente dalla scala dell’abitato esistente; si individuano due testate con piazze pubbliche e funzioni basate sull’integrazione sociale dei villeros su Av. Lacroze (una piazza-mercato) ed un centro multifunzionale che coordina le attività ospitate dai laboratori su Av. Elcano (spazi di lavoro, nuova mensa comunitaria e centro di sostegno per madri e famiglie). Un parco lineare collega infine le due testate. La tesi è stata elaborata con la collaborazione del gruppo di ricerca coordinato dal prof. arch. Javier Fernandez Castro e seguita in qualità di relatore dal prof. arch. Marco Bovati (ricercatore TD in Composizione Architettonica e Urbana - DAStU) e in qualità di co-relatore dall’arch. Ester Dedé (dottoranda in Architettura, Urbanistica e Conservazione dei luoghi dell’abitare e del paesaggio – DAStU). Nei capitoli che seguono si indagherà il fenomeno degli abitati informali, nelle loro caratteristiche generali e nelle modalità in cui il fenomeno si è diffuso e continua a diffondersi ancora ai nostri giorni, facendo anche riferimento ai diversi approcci statali e comunitari adottati col trascorrere dei decenni. Si passerà poi ad una breve storia della Città di Buenos Aires ed all’analisi delle dinamiche che hanno portato alla formazione di numerosi insediamenti informali all’interno della Capitale argentina. Seguirà un intero capitolo sull’analisi di casi studio progettuali, tre progetti latinoamericani, di cui due in attuale concretizzazione, che si pongono l’obiettivo di riurbanizzare e rigenerare in questo modo interi settori di città. Verranno dunque presentati i casi studio di Mi Favela Barrio di Jorge Mario Jáuregui ed i due progetti di urbanizzazione delle Villas 31 e 21-24 di Javier Fernandez Castro. Si giungerà infine all’analisi dell’area di progetto assegnata in loco ed alla proposta progettuale sviluppata nell’ambito della redazione di questo lavoro. Alla fine è anche possibile trovare in allegato la trascrizione e traduzione di alcune delle interviste effettuate in loco. Esse si sono rivelate fondamentali per comprendere a pieno il fenomeno delle villas miseras e le dinamiche ad esse connesse.
FERNANDEZ CASTRO, JAVIER
DEDE', ESTER
ARC I - Scuola di Architettura e Società
27-apr-2015
2013/2014
Tesi di laurea Magistrale
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