L’ingresso nell’era del digitale ha fortemente plasmato lo stile di vita occidentale e non, dal modo di informarsi, ai metodi di apprendimento, alla gestione e condivisione del proprio tempo libero. La rete ha reso disponibile, in breve tempo, una quantità di materiale testuale enorme. A fronte di queste trasformazioni e della sovrabbondanza di informazioni, le problematicità riguardano non solo l’archiviazione, ma anche e soprattutto le possibilità di analisi e studio di questi documenti. Questo progetto si concentra sul modo in cui l’informazione, in quanto archivio della nostra memoria del presente, affronta gli abusi e i traumi della storia, nello specifico le violenze legate alla Shoah. Come si può raccontare il male? Come si può mettere per iscritto qualcosa che ha privato l’autore della sua identità, della sua umanità e del suo posto nella storia? La risposta a queste domande è riscontrabile all’interno dei testi selezionati, ma il compito di capire come archiviare e tramandare la sofferenza altrui è alla base di questa indagine. Si tratta dunque di cercare un modo per rappresentare e analizzare il passato, in particolare il passato traumatico, e quindi la memoria della violenza, per far sì che lo studio e i processi di analisi di ciò che è stato possano influire e attenuare, o comunque aiutare a capire e a prevenire la violenza del futuro. La guerra è sì una condizione di rottura, ma anche un universo mosso da leggi proprie, ed è la guerra come sistema culturale, come traduttore e ri-formulatore dei testi appartenenti alla cultura che la subisce ad essere materia di studio della semiotica della cultura. I conflitti plasmano la memoria, la trasformano ridefinendo i modelli culturali alla base delle nazioni coinvolte e ne determinano i processi di conservazione e oblio. Diventa allora necessario riappropriarsi dello spazio pubblico, inteso come «luogo di ricostruzione della pelle e del corpo sociale in cui il trauma è dilagato» (Demaria 2006: 62), come palestra per riscrivere e rileggere la memoria collettiva. Lavorare sulla memoria come pratica testuale implica lo studio delle testimonianze e perciò della traduzione dell’esperienza mediata dalla scrittura; questo processo di registrazione dà vita a una serie di discorsi conflittuali, vere e proprie narrazioni animate da personaggi che rivestono determinati ruoli tematici (vittime, testimoni, criminali) e in cui la singolarità della voce narrante si fonde in un intreccio di esperienze, ri-costruendo un dialogo plurale. È a questo punto che l’ingresso della semiotica si è rivelato necessario, per la sua capacità di estrarre il contesto indagando direttamente il testo e di percepire l’intertestualità che lega tra loro e con l’esterno le opere di un corpus. La scelta di analizzare un insieme di libri relativo alla deportazione italiana ha posto le basi per un’indagine più ampia: era necessario infatti allargare il campo di studi dalla testimonianza personale a una dimensione sociale e collettiva. Si è passati, così, al concetto più ampio di memoria collettiva, allo studio dei suoi meccanismi di costruzione e alle forze coinvolte nella sua conservazione e diffusione. La mostra E tutto questo diventa una storia. I primi libri che in Italia hanno raccontato i Lager1 è stata il punto di partenza per una serie di riflessioni che hanno portato all’esplorazione del mondo dell’analisi digitale. Si è privilegiato un percorso attento ai meccanismi narrativi, discorsivi e interpretativi della memoria e il suo rapporto con gli editori e la stampa. Lo studio tutto umano operato sui testi, oltre a richiedere la collaborazione di un importante numero di lettori, ha fatto emergere interessanti problematiche relative alle differenti interpretazioni nella compilazione delle schede analitiche, ai punti di vista molteplici e ai criteri di analisi eterogenei, soggettivi e poco uniformi. Queste difficoltà hanno sicuramente viziato la raccolta dei dati, che, come specificato nella mostra, non aveva pretese di esaustività, ma voleva essere un primo spunto per guardare a queste voci nel loro insieme, facendone emergere le caratteristiche comuni e le anomalie. Se la mostra rappresentava l’inizio di un percorso, quale sarebbe stato il seguito? La risposta è stata trovata nel mondo delle Digital Humanities (o informatica umanistica), disciplina relativamente moderna, nata dall’evoluzione della linguistica computazionale. Il passo successivo era dunque quello di trovare un metodo di analisi più accurato, che non obbligasse alla lettura dell’intero corpus oggetto di studio, ma delegasse alla macchina i calcoli e le operazioni di estrazione dell’informazione dai testi, facilitando e rendendo più attendibile il lavoro del ricercatore. Questa direzione ha offerto una soluzione a un secondo problema, quello relativo all’archiviazione e alla libera circolazione della memoria. La ricerca fisica di questi 29 testi ha evidenziato la fatica di accesso alle fonti, spesso non disponibili negli archivi in versione originale e comunque difficilmente consultabili, sia per l’impossibilità di prenotare i documenti, facendoli uscire dalla biblioteca, sia per le loro condizioni, alterate dal tempo e dall’usura. Trattandosi di testi pubblicati da piccole case editrici, inoltre, le basse tirature e la scarsa diffusione non hanno certo facilitato la loro conservazione. L’archiviazione digitale ha dunque fornito una soluzione al problema del superamento dei vincoli fisici dell’oggetto-libro, ma la semplice digitalizzazione dei testi non era sufficiente. Occorreva dar vita a uno strumento capace di sfruttare le potenzialità di analisi della macchina senza però eliminare del tutto la ricchezza materica dei libri, includendone ad esempio gli apparati iconografici e le copertine; una piattaforma che invogliasse all’uso anche gli umanisti, i ricercatori e gli archivisti tradizionali, abituati ai metodi propri dell’indagine storico-umanistica e per definizione restii all’utilizzo dei mezzi digitali, considerati fuorvianti e incapaci di una analisi semantica approfondita. I punti di forza del progetto dovevano quindi essere l’immediatezza e la facilità d’uso, per avvicinare, attraverso la semplicità dell’interfaccia, anche i meno inclini all’utilizzo del computer; e ancora la possibilità di effettuare rapidamente ricerche lessico-semantiche rigorose, guidate dai vincoli di un percorso preimpostato, ma non per questo limitativo. Per finire occorreva lasciare ai ricercatori uno spazio tutto loro, un foglio bianco dove costruire le proprie intuizioni a partire dai risultati forniti dalla macchina, ma anche un’area di condivisione e arricchimento delle ricerche personali. La delicatezza richiesta dalla rappresentazione e dal racconto della deportazione la rende un argomento emblematico, anche per la facilità dello scadere in banalizzazioni ed eccessi sacralizzanti nella restituzione e nell'elaborazione delle testimonianze. Il compito di uscire da questa situzione problematica è stato affidato a un progetto di design: la sfida è stata quella di evitare ricostruzioni o suggestioni attraverso immagini e documenti audio esterni ai testi, lasciando spazio al lavoro di interpretazione operabile sui documenti. La memoria, individuale e collettiva, è già di per sé un oggetto di studio complesso, si tratta di un’entità viva, in divenire, che va allenata e deve evolversi nel tempo, interrogandosi continuamente su se stessa e sul rapporto da intrattenere con le nuove generazioni. Se, dunque, la memoria è cultura l’uomo non può esimersi dalla sua costruzione, dal suo esercizio e dalla lettura dei suoi testi.
Stilo. Semiotical text inquiry on lexical ontology. Uno strumento semiotico per rifigurare e condividere la memoria collettiva
SONZOGNI, GIULIA
2015/2016
Abstract
L’ingresso nell’era del digitale ha fortemente plasmato lo stile di vita occidentale e non, dal modo di informarsi, ai metodi di apprendimento, alla gestione e condivisione del proprio tempo libero. La rete ha reso disponibile, in breve tempo, una quantità di materiale testuale enorme. A fronte di queste trasformazioni e della sovrabbondanza di informazioni, le problematicità riguardano non solo l’archiviazione, ma anche e soprattutto le possibilità di analisi e studio di questi documenti. Questo progetto si concentra sul modo in cui l’informazione, in quanto archivio della nostra memoria del presente, affronta gli abusi e i traumi della storia, nello specifico le violenze legate alla Shoah. Come si può raccontare il male? Come si può mettere per iscritto qualcosa che ha privato l’autore della sua identità, della sua umanità e del suo posto nella storia? La risposta a queste domande è riscontrabile all’interno dei testi selezionati, ma il compito di capire come archiviare e tramandare la sofferenza altrui è alla base di questa indagine. Si tratta dunque di cercare un modo per rappresentare e analizzare il passato, in particolare il passato traumatico, e quindi la memoria della violenza, per far sì che lo studio e i processi di analisi di ciò che è stato possano influire e attenuare, o comunque aiutare a capire e a prevenire la violenza del futuro. La guerra è sì una condizione di rottura, ma anche un universo mosso da leggi proprie, ed è la guerra come sistema culturale, come traduttore e ri-formulatore dei testi appartenenti alla cultura che la subisce ad essere materia di studio della semiotica della cultura. I conflitti plasmano la memoria, la trasformano ridefinendo i modelli culturali alla base delle nazioni coinvolte e ne determinano i processi di conservazione e oblio. Diventa allora necessario riappropriarsi dello spazio pubblico, inteso come «luogo di ricostruzione della pelle e del corpo sociale in cui il trauma è dilagato» (Demaria 2006: 62), come palestra per riscrivere e rileggere la memoria collettiva. Lavorare sulla memoria come pratica testuale implica lo studio delle testimonianze e perciò della traduzione dell’esperienza mediata dalla scrittura; questo processo di registrazione dà vita a una serie di discorsi conflittuali, vere e proprie narrazioni animate da personaggi che rivestono determinati ruoli tematici (vittime, testimoni, criminali) e in cui la singolarità della voce narrante si fonde in un intreccio di esperienze, ri-costruendo un dialogo plurale. È a questo punto che l’ingresso della semiotica si è rivelato necessario, per la sua capacità di estrarre il contesto indagando direttamente il testo e di percepire l’intertestualità che lega tra loro e con l’esterno le opere di un corpus. La scelta di analizzare un insieme di libri relativo alla deportazione italiana ha posto le basi per un’indagine più ampia: era necessario infatti allargare il campo di studi dalla testimonianza personale a una dimensione sociale e collettiva. Si è passati, così, al concetto più ampio di memoria collettiva, allo studio dei suoi meccanismi di costruzione e alle forze coinvolte nella sua conservazione e diffusione. La mostra E tutto questo diventa una storia. I primi libri che in Italia hanno raccontato i Lager1 è stata il punto di partenza per una serie di riflessioni che hanno portato all’esplorazione del mondo dell’analisi digitale. Si è privilegiato un percorso attento ai meccanismi narrativi, discorsivi e interpretativi della memoria e il suo rapporto con gli editori e la stampa. Lo studio tutto umano operato sui testi, oltre a richiedere la collaborazione di un importante numero di lettori, ha fatto emergere interessanti problematiche relative alle differenti interpretazioni nella compilazione delle schede analitiche, ai punti di vista molteplici e ai criteri di analisi eterogenei, soggettivi e poco uniformi. Queste difficoltà hanno sicuramente viziato la raccolta dei dati, che, come specificato nella mostra, non aveva pretese di esaustività, ma voleva essere un primo spunto per guardare a queste voci nel loro insieme, facendone emergere le caratteristiche comuni e le anomalie. Se la mostra rappresentava l’inizio di un percorso, quale sarebbe stato il seguito? La risposta è stata trovata nel mondo delle Digital Humanities (o informatica umanistica), disciplina relativamente moderna, nata dall’evoluzione della linguistica computazionale. Il passo successivo era dunque quello di trovare un metodo di analisi più accurato, che non obbligasse alla lettura dell’intero corpus oggetto di studio, ma delegasse alla macchina i calcoli e le operazioni di estrazione dell’informazione dai testi, facilitando e rendendo più attendibile il lavoro del ricercatore. Questa direzione ha offerto una soluzione a un secondo problema, quello relativo all’archiviazione e alla libera circolazione della memoria. La ricerca fisica di questi 29 testi ha evidenziato la fatica di accesso alle fonti, spesso non disponibili negli archivi in versione originale e comunque difficilmente consultabili, sia per l’impossibilità di prenotare i documenti, facendoli uscire dalla biblioteca, sia per le loro condizioni, alterate dal tempo e dall’usura. Trattandosi di testi pubblicati da piccole case editrici, inoltre, le basse tirature e la scarsa diffusione non hanno certo facilitato la loro conservazione. L’archiviazione digitale ha dunque fornito una soluzione al problema del superamento dei vincoli fisici dell’oggetto-libro, ma la semplice digitalizzazione dei testi non era sufficiente. Occorreva dar vita a uno strumento capace di sfruttare le potenzialità di analisi della macchina senza però eliminare del tutto la ricchezza materica dei libri, includendone ad esempio gli apparati iconografici e le copertine; una piattaforma che invogliasse all’uso anche gli umanisti, i ricercatori e gli archivisti tradizionali, abituati ai metodi propri dell’indagine storico-umanistica e per definizione restii all’utilizzo dei mezzi digitali, considerati fuorvianti e incapaci di una analisi semantica approfondita. I punti di forza del progetto dovevano quindi essere l’immediatezza e la facilità d’uso, per avvicinare, attraverso la semplicità dell’interfaccia, anche i meno inclini all’utilizzo del computer; e ancora la possibilità di effettuare rapidamente ricerche lessico-semantiche rigorose, guidate dai vincoli di un percorso preimpostato, ma non per questo limitativo. Per finire occorreva lasciare ai ricercatori uno spazio tutto loro, un foglio bianco dove costruire le proprie intuizioni a partire dai risultati forniti dalla macchina, ma anche un’area di condivisione e arricchimento delle ricerche personali. La delicatezza richiesta dalla rappresentazione e dal racconto della deportazione la rende un argomento emblematico, anche per la facilità dello scadere in banalizzazioni ed eccessi sacralizzanti nella restituzione e nell'elaborazione delle testimonianze. Il compito di uscire da questa situzione problematica è stato affidato a un progetto di design: la sfida è stata quella di evitare ricostruzioni o suggestioni attraverso immagini e documenti audio esterni ai testi, lasciando spazio al lavoro di interpretazione operabile sui documenti. La memoria, individuale e collettiva, è già di per sé un oggetto di studio complesso, si tratta di un’entità viva, in divenire, che va allenata e deve evolversi nel tempo, interrogandosi continuamente su se stessa e sul rapporto da intrattenere con le nuove generazioni. Se, dunque, la memoria è cultura l’uomo non può esimersi dalla sua costruzione, dal suo esercizio e dalla lettura dei suoi testi.File | Dimensione | Formato | |
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