La globalizzazione dei mercati finanziari e i processi di innovazione e di consolidamento che ne sono conseguiti hanno indotto gli istituti di credito a ricercare nuove e più efficienti fonti di reddito attraverso una diversificazione dell’attività, prodotti, mercati e modelli operativi. La partecipazione delle banche a nuovi segmenti dell’attività di intermediazione, l’estesa adozione del modello originate-to-distribute, la crescita della pressione competitiva e di quella sui risultati di breve termine, con i conseguenti rischi di allentamento nell valutazione dei profitti di conformità, hanno determinato un’evoluzione dell’esposizione del rischio delle banche, con particolare riferimento a quello operativo, legali e di reputazione. Particolare rilevanza assume il tema della reputazione in un settore di mercato che si regge, per sua stessa natura, sul rapporto fiduciario con la clientela, nel quale una perdita reputazionale da parte dell’intermediario può mettere in pericolo la sopravvivenza dell’impresa, soprattutto in un contesto, quale quello corrente, di acuita sensibilità al tema dell’etica degli affari. I nuovi rischi sono difficili da quantificare, a causa innanzitutto di problemi di corretta definizione degli stessi e degli aggregati quantitativi ai quali fanno riferimento, nonché alla causa della mancanza di serie storiche adeguatamente estese. Partendo da questa considerazione, il presente lavoro si propone di dimostrare che per la vastità del tema, nonché per la trasversalità degli effetti reputazionali, il rischio reputazionale possa inquadrarsi in una dimensione più ampia, comprensibile alla luce del confronto tra compliance risk e operational risk del Comitato di Basilea. Si delineano dunque gli elementi comuni ai due rischi e il loro legame con quello reputazionale: riprendendo l’enucleazione dei fattori originari di rischio reputazionale, lo si colloca come un rischio di “secondo impatto” del rischio operativo, il quale, in ultima istanza, origina da un’insufficiente compliance. In questo percorso d’analisi, una trattazione sintetica è dedicata al rischio reputazionale nell’ottica ambientale; il rischio reputazionale viene assunto come uno dei tre tipi di rischio ambientale e, per questa ragione, si passano brevemente in rassegna i principali strumenti di comunicazione della gestione (eco-audit, eco-label, bilancio ambientale..). Si riprende quindi la trattazione dall’analisi delle variabili reputazionali, ritenute fondamentali affinché il rischio originario possa trasformarsi in reputazionale. La validità delle variabili reputazionali date dall’ambiente pubblico, dai processi di comunicazione e dalla visibilità del marchio è però limitata, a nostro avviso, alle sole dinamiche relazionali di breve periodo tra l’impresa e gli stakeholder. Alla luce di questa interpretazione, si approfondisce l’analisi focalizzandosi sull’individuazione dei driver di rischio reputazionale. Dal momento che essi sono strettamente riferibili all’ottimizzazione delle componenti della reputazione, rappresentano gli elementi su cui concentrare lo sforzo gestionale di tipo strategico - organizzativo, allo scopo di incrementare la reputazione. Si individuano quindi i driver nella performance finanziaria e negli investimenti di lungo termine, nella bontà della corporate governance, nella CSR nonché nella gestione della compliance e dei rapporti con i clienti. In questo approccio, è di immediata comprensione ritrovare il filo conduttore relativo alla corretta gestione del rischio di compliance e i fattori che influenzano quello reputazionale. Infine, si illustrano gli effetti del rischio reputazionale, precisando che da esso non derivano solo possibile perdite, ma anche opportunità di profitto, se correttamente gestito. Nel secondo capitolo si riprendono brevemente i contributi della letteratura economica sulla teoria delle scelte reputazionali. In particolare ci si concentra sull’applicazione dei modelli della teoria dei giochi allo scopo di offrire una spiegazione dei meccanismi logici e della dinamica che presiede alle scelte economiche degli agenti anche se, tuttavia, questo aspetto dell’analisi non supporta il processo di misurazione. Per questa ragione, nel terzo capitolo ci si focalizza sui criteri seguiti nel processo di misurazione, sia in ordine alla valutazione della reputazione aziendale, sia in ordine alla possibilità di stimare gli effetti del rischio reputazionale. L’analisi dei tentativi di misurazione finora proposti si pone l’obiettivo di ottimizzare l’allocazione efficiente delle risorse e consente di accettare meno acriticamente l’esclusione del rischio reputazionale dall’ottica di adeguatezza patrimoniale di Basilea 2. Fra i criteri di valutazione della reputazione ci si sofferma sulla procedura di quantificazione del Reputation Quotient e del Reputation Index. Entrambi determinano la reputazione dalla valutazione interna di fattori non quantitativi; la loro descrizione è motivata dalla capacità di questi indici di cogliere il valore della reputazione nella qualità dell’interazione con i portatori di interessi. Il loro utilizzo si inserisce in un’ottica preventiva che li qualifica come strumenti di misurazione a supporto della minimizzazione delle cause di rischio reputazionale. Con questo stesso scopo, si suggerisce quindi l’uso di modelli analitici di performance aziendali che integrano misure finanziarie e non; in particolare, si enfatizza l’utilità della balanced scorecard nel confrontare la pianificazione strategica ed i risultati, sulla base delle attese degli stakeholder. La validità dello strumento è rafforzata dalla possibilità di integrare l’ulteriore prospettiva relativa alla responsabilità sociale ed ambientale. Per quanto attiene alla valutazione degli effetti del rischio reputazionale, l’analisi si focalizza sul processo di misurazione della perdita reputazionale, esaminando la reazione della quotazione azionaria all’annuncio di perdita operativa; si stima quindi la perdita attesa come risultato della probabilità di manifestazione dell’evento originario, della probabilità della variabile reputazionale e della percentuale attesa di perdita nel caso di danno reputazionale, giungendo, al termine di questo percorso, al calcolo del VaR reputazionale. Questi studi si propongono di dimostrare che le perdite operative producono notevoli conseguenze reputazionali e indicano che la diversità nelle strutture di governance sia correlata alla natura del danno e alla dimensione delle conseguenze reputazionali. Tuttavia, tali metodi di misurazione non risultano privi di limiti a causa dell’assenza di serie storiche affidabili e della difficile traduzione numerica della percezione di rischio. A queste lacune statistiche si aggiunga che, per la trasversalità della sua natura, appare poco coerente dal punto di vista logico procedere alla misurazione del VaR reputazionale. Per queste ragioni, si concorda con quanti trovano eccessivo il calcolo del VaR reputazionale, preferendo tecniche gestionali. Viene quindi presentato un caso reale che mostra come Barclays Capital monitora e predispone misure preventive per salvaguardare la propria reputazione: all’interno di questa analisi viene illustrato come si sviluppa il processo di “Know your Customer” all’interno di una banca d’investimento e come le banche stimano MLRR (Matrix Laundering Risk Rating) per avere una misura quantitativa della loro esposizione al rischio reputazione. Nel capitolo conclusivo si riconducono ad una trattazione unitaria le implicazioni delle diverse problematiche emerse nel corso del lavoro. Esso si compone di due parti distinte: nella prima sezione si indaga il processo di gestione della crisi, sottolineando la centralità della comunicazione verso gli stakeholder e il bisogno di una pianificazione strategica della risposta. Nel secondo paragrafo si propone uno schema di gestione integrata del rischio reputazionale. Ci si sposta in un contesto di transizione, dall’ottica regolamentare di adeguatezza patrimoniale, prevista dal Comitato di Basilea 2 per gli altri rischi, a un approccio di tipo strategico- organizzativo. La gestione del rischio reputazionale trova il suo punto di partenza nell’identificazione degli stakeholder cruciali e, in particolare, nella verifica dello scollamento fra il livello di rischio assunto dalla società e le istanze dei portatori di interessi. Ciò consente di perfezionare l’impostazione strategica e migliorare la comunicazione, motivando la costruzione di una governance ampia, capace di garantire la molteplicità delle istanze che convergono nell’impresa. In questo contesto, il lavoro affronta brevemente i due modelli più diffusi in merito alla tutela degli interessi: l’approccio “shareholder value” e quello “stakeholder value”. Si indagano i problemi dai quali ha origine la corporate governance, ovvero la risoluzione del rapporto proprietà- controllo che sintetizza la natura del conflitto tra manager e azionisti e tra azionisti di maggioranza e minoranza. Una trattazione separata è riservata ad illustrare le caratteristiche di governance per le banche, la peculiarità della quale è giustificata dalla fornitura di un’attività multiservizio e dai possibili conflitti di interesse. Queste osservazioni avvalorano la scelta di perseguire un approccio di gestione del rischio reputazionale dal punto di vista organizzativo ed in particolare a mettere in luce la recente evoluzione dei processi di risk management verso l’ERM (Enterprise Risk Management), la cui utilità nella gestione del rischio è rafforzata dall’esigenza di coordinarvi un adeguato assetto di governance che combini economicità ed etica nelle scelte aziendali. In questo ambito, la gestione del rischio reputazionale trova un ulteriore contributo in un’efficace ed efficiente programma di compliance che, superando il rispetto delle prescrizioni regolamentari, si connoti per un continuo self-assessment teso a verificare il livello di coerenza tra business practices e principi di governance. Nell’accezione proposta, la compliance, che rappresenta una componente integrante di una buona cultura aziendale, si connota per un’ulteriore evoluzione verso la scelta del rispetto dei fondamenti etici, quale base fondamentale del processo di decision-making quotidiano. Un programma strutturato di aderenza alle normative esterne ed interne, rafforzato da una effettiva e volontaria cultura etica, crea valore e costituisce un valido apporto alla soddisfazione delle attese sociali. Alla cultura della compliance si aggiunge una cultura dei controlli interni definita su responsabilità specifiche e separatezza di funzioni. L’importanza del sistema dei controlli interni emerge dalle finalità di miglioramento dell’efficienza e dell’economicità gestionale che esso si pone, informando l’Alta direzione delle criticità emerse a livello operativo-procedurale e consentendo l’attivazione di un meccanismo di feed-back agli stimoli interni ed esterni. La sua integrazione potenzia la capacità intrinseca dell’attività di ERM nel gestire il problema di compliance, “valutando l’adeguatezza e l’effettività di tale funzione”. L’analisi si conclude con un riferimento alla Corporate Social Responsability (CSR). Essa si configura come una responsabilità verso un comportamento che, andando oltre la compliance normativa esterna ed interna e trovando motivazione nelle aspettative etiche, si caratterizzi per una internalizzazione volontaria e consapevole delle pratiche gestionali relative alla dimensione socio-ambientale. La CSR viene intesa come una strategia di governance allargatache, senza snaturare il fine imprenditoriale della ricerca del profitto, lo collochi all’interno di un difficile ma auspicabile contemperamento volontario di tutti gli interessi sociali. Questa rilettura del business si propone come criterio-guida nella gestione del rapporto con gli stakeholder, finalizzandolo alla creazione di valore di lungo termine e al consolidamento di una robusta reputazione aziendale.
Il rischio reputazionale nel settore bancario
ALDRIGO, FLAVIA
2009/2010
Abstract
La globalizzazione dei mercati finanziari e i processi di innovazione e di consolidamento che ne sono conseguiti hanno indotto gli istituti di credito a ricercare nuove e più efficienti fonti di reddito attraverso una diversificazione dell’attività, prodotti, mercati e modelli operativi. La partecipazione delle banche a nuovi segmenti dell’attività di intermediazione, l’estesa adozione del modello originate-to-distribute, la crescita della pressione competitiva e di quella sui risultati di breve termine, con i conseguenti rischi di allentamento nell valutazione dei profitti di conformità, hanno determinato un’evoluzione dell’esposizione del rischio delle banche, con particolare riferimento a quello operativo, legali e di reputazione. Particolare rilevanza assume il tema della reputazione in un settore di mercato che si regge, per sua stessa natura, sul rapporto fiduciario con la clientela, nel quale una perdita reputazionale da parte dell’intermediario può mettere in pericolo la sopravvivenza dell’impresa, soprattutto in un contesto, quale quello corrente, di acuita sensibilità al tema dell’etica degli affari. I nuovi rischi sono difficili da quantificare, a causa innanzitutto di problemi di corretta definizione degli stessi e degli aggregati quantitativi ai quali fanno riferimento, nonché alla causa della mancanza di serie storiche adeguatamente estese. Partendo da questa considerazione, il presente lavoro si propone di dimostrare che per la vastità del tema, nonché per la trasversalità degli effetti reputazionali, il rischio reputazionale possa inquadrarsi in una dimensione più ampia, comprensibile alla luce del confronto tra compliance risk e operational risk del Comitato di Basilea. Si delineano dunque gli elementi comuni ai due rischi e il loro legame con quello reputazionale: riprendendo l’enucleazione dei fattori originari di rischio reputazionale, lo si colloca come un rischio di “secondo impatto” del rischio operativo, il quale, in ultima istanza, origina da un’insufficiente compliance. In questo percorso d’analisi, una trattazione sintetica è dedicata al rischio reputazionale nell’ottica ambientale; il rischio reputazionale viene assunto come uno dei tre tipi di rischio ambientale e, per questa ragione, si passano brevemente in rassegna i principali strumenti di comunicazione della gestione (eco-audit, eco-label, bilancio ambientale..). Si riprende quindi la trattazione dall’analisi delle variabili reputazionali, ritenute fondamentali affinché il rischio originario possa trasformarsi in reputazionale. La validità delle variabili reputazionali date dall’ambiente pubblico, dai processi di comunicazione e dalla visibilità del marchio è però limitata, a nostro avviso, alle sole dinamiche relazionali di breve periodo tra l’impresa e gli stakeholder. Alla luce di questa interpretazione, si approfondisce l’analisi focalizzandosi sull’individuazione dei driver di rischio reputazionale. Dal momento che essi sono strettamente riferibili all’ottimizzazione delle componenti della reputazione, rappresentano gli elementi su cui concentrare lo sforzo gestionale di tipo strategico - organizzativo, allo scopo di incrementare la reputazione. Si individuano quindi i driver nella performance finanziaria e negli investimenti di lungo termine, nella bontà della corporate governance, nella CSR nonché nella gestione della compliance e dei rapporti con i clienti. In questo approccio, è di immediata comprensione ritrovare il filo conduttore relativo alla corretta gestione del rischio di compliance e i fattori che influenzano quello reputazionale. Infine, si illustrano gli effetti del rischio reputazionale, precisando che da esso non derivano solo possibile perdite, ma anche opportunità di profitto, se correttamente gestito. Nel secondo capitolo si riprendono brevemente i contributi della letteratura economica sulla teoria delle scelte reputazionali. In particolare ci si concentra sull’applicazione dei modelli della teoria dei giochi allo scopo di offrire una spiegazione dei meccanismi logici e della dinamica che presiede alle scelte economiche degli agenti anche se, tuttavia, questo aspetto dell’analisi non supporta il processo di misurazione. Per questa ragione, nel terzo capitolo ci si focalizza sui criteri seguiti nel processo di misurazione, sia in ordine alla valutazione della reputazione aziendale, sia in ordine alla possibilità di stimare gli effetti del rischio reputazionale. L’analisi dei tentativi di misurazione finora proposti si pone l’obiettivo di ottimizzare l’allocazione efficiente delle risorse e consente di accettare meno acriticamente l’esclusione del rischio reputazionale dall’ottica di adeguatezza patrimoniale di Basilea 2. Fra i criteri di valutazione della reputazione ci si sofferma sulla procedura di quantificazione del Reputation Quotient e del Reputation Index. Entrambi determinano la reputazione dalla valutazione interna di fattori non quantitativi; la loro descrizione è motivata dalla capacità di questi indici di cogliere il valore della reputazione nella qualità dell’interazione con i portatori di interessi. Il loro utilizzo si inserisce in un’ottica preventiva che li qualifica come strumenti di misurazione a supporto della minimizzazione delle cause di rischio reputazionale. Con questo stesso scopo, si suggerisce quindi l’uso di modelli analitici di performance aziendali che integrano misure finanziarie e non; in particolare, si enfatizza l’utilità della balanced scorecard nel confrontare la pianificazione strategica ed i risultati, sulla base delle attese degli stakeholder. La validità dello strumento è rafforzata dalla possibilità di integrare l’ulteriore prospettiva relativa alla responsabilità sociale ed ambientale. Per quanto attiene alla valutazione degli effetti del rischio reputazionale, l’analisi si focalizza sul processo di misurazione della perdita reputazionale, esaminando la reazione della quotazione azionaria all’annuncio di perdita operativa; si stima quindi la perdita attesa come risultato della probabilità di manifestazione dell’evento originario, della probabilità della variabile reputazionale e della percentuale attesa di perdita nel caso di danno reputazionale, giungendo, al termine di questo percorso, al calcolo del VaR reputazionale. Questi studi si propongono di dimostrare che le perdite operative producono notevoli conseguenze reputazionali e indicano che la diversità nelle strutture di governance sia correlata alla natura del danno e alla dimensione delle conseguenze reputazionali. Tuttavia, tali metodi di misurazione non risultano privi di limiti a causa dell’assenza di serie storiche affidabili e della difficile traduzione numerica della percezione di rischio. A queste lacune statistiche si aggiunga che, per la trasversalità della sua natura, appare poco coerente dal punto di vista logico procedere alla misurazione del VaR reputazionale. Per queste ragioni, si concorda con quanti trovano eccessivo il calcolo del VaR reputazionale, preferendo tecniche gestionali. Viene quindi presentato un caso reale che mostra come Barclays Capital monitora e predispone misure preventive per salvaguardare la propria reputazione: all’interno di questa analisi viene illustrato come si sviluppa il processo di “Know your Customer” all’interno di una banca d’investimento e come le banche stimano MLRR (Matrix Laundering Risk Rating) per avere una misura quantitativa della loro esposizione al rischio reputazione. Nel capitolo conclusivo si riconducono ad una trattazione unitaria le implicazioni delle diverse problematiche emerse nel corso del lavoro. Esso si compone di due parti distinte: nella prima sezione si indaga il processo di gestione della crisi, sottolineando la centralità della comunicazione verso gli stakeholder e il bisogno di una pianificazione strategica della risposta. Nel secondo paragrafo si propone uno schema di gestione integrata del rischio reputazionale. Ci si sposta in un contesto di transizione, dall’ottica regolamentare di adeguatezza patrimoniale, prevista dal Comitato di Basilea 2 per gli altri rischi, a un approccio di tipo strategico- organizzativo. La gestione del rischio reputazionale trova il suo punto di partenza nell’identificazione degli stakeholder cruciali e, in particolare, nella verifica dello scollamento fra il livello di rischio assunto dalla società e le istanze dei portatori di interessi. Ciò consente di perfezionare l’impostazione strategica e migliorare la comunicazione, motivando la costruzione di una governance ampia, capace di garantire la molteplicità delle istanze che convergono nell’impresa. In questo contesto, il lavoro affronta brevemente i due modelli più diffusi in merito alla tutela degli interessi: l’approccio “shareholder value” e quello “stakeholder value”. Si indagano i problemi dai quali ha origine la corporate governance, ovvero la risoluzione del rapporto proprietà- controllo che sintetizza la natura del conflitto tra manager e azionisti e tra azionisti di maggioranza e minoranza. Una trattazione separata è riservata ad illustrare le caratteristiche di governance per le banche, la peculiarità della quale è giustificata dalla fornitura di un’attività multiservizio e dai possibili conflitti di interesse. Queste osservazioni avvalorano la scelta di perseguire un approccio di gestione del rischio reputazionale dal punto di vista organizzativo ed in particolare a mettere in luce la recente evoluzione dei processi di risk management verso l’ERM (Enterprise Risk Management), la cui utilità nella gestione del rischio è rafforzata dall’esigenza di coordinarvi un adeguato assetto di governance che combini economicità ed etica nelle scelte aziendali. In questo ambito, la gestione del rischio reputazionale trova un ulteriore contributo in un’efficace ed efficiente programma di compliance che, superando il rispetto delle prescrizioni regolamentari, si connoti per un continuo self-assessment teso a verificare il livello di coerenza tra business practices e principi di governance. Nell’accezione proposta, la compliance, che rappresenta una componente integrante di una buona cultura aziendale, si connota per un’ulteriore evoluzione verso la scelta del rispetto dei fondamenti etici, quale base fondamentale del processo di decision-making quotidiano. Un programma strutturato di aderenza alle normative esterne ed interne, rafforzato da una effettiva e volontaria cultura etica, crea valore e costituisce un valido apporto alla soddisfazione delle attese sociali. Alla cultura della compliance si aggiunge una cultura dei controlli interni definita su responsabilità specifiche e separatezza di funzioni. L’importanza del sistema dei controlli interni emerge dalle finalità di miglioramento dell’efficienza e dell’economicità gestionale che esso si pone, informando l’Alta direzione delle criticità emerse a livello operativo-procedurale e consentendo l’attivazione di un meccanismo di feed-back agli stimoli interni ed esterni. La sua integrazione potenzia la capacità intrinseca dell’attività di ERM nel gestire il problema di compliance, “valutando l’adeguatezza e l’effettività di tale funzione”. L’analisi si conclude con un riferimento alla Corporate Social Responsability (CSR). Essa si configura come una responsabilità verso un comportamento che, andando oltre la compliance normativa esterna ed interna e trovando motivazione nelle aspettative etiche, si caratterizzi per una internalizzazione volontaria e consapevole delle pratiche gestionali relative alla dimensione socio-ambientale. La CSR viene intesa come una strategia di governance allargatache, senza snaturare il fine imprenditoriale della ricerca del profitto, lo collochi all’interno di un difficile ma auspicabile contemperamento volontario di tutti gli interessi sociali. Questa rilettura del business si propone come criterio-guida nella gestione del rapporto con gli stakeholder, finalizzandolo alla creazione di valore di lungo termine e al consolidamento di una robusta reputazione aziendale.File | Dimensione | Formato | |
---|---|---|---|
2011_01_Aldrigo.pdf
accessibile in internet per tutti
Descrizione: Tesi
Dimensione
962.75 kB
Formato
Adobe PDF
|
962.75 kB | Adobe PDF | Visualizza/Apri |
I documenti in POLITesi sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.
https://hdl.handle.net/10589/13921