The Cafè Alzheimer Project starts with a significant change in the traditional thiking of the elderly care spaces: from a rigid hospital-like environment to a place where the quality of atmosphere, materials, solutions is part of the healing process itself. The Alzheimer Disease has earned the title of “disease of the Century”, which dramatically erodes the most private and inner part of a human being: the personality, the memories of an entire lifetime are just wiped out by a silent and relentless enemy. “Sanity” and “insanity” are no longer opposite terms, they overlap, the mix up into something new, born from the ever-changing reality: as a direct consequence of this, the Cafè changes into an ephemeral screen, weak against the city and its noises, which permeate the atmosphere and the interiors in a strong osmotic process, a neverending stream, allowing a mutual growth and exchange of informations and experiences. The interiors – made of nets, transparencies, milky and foggy boundaries – are linked to the permanent state of absence, typical of the disease; the Cafè changes along with the city, its users, the patients, the families, it throbs like a cell, opened up to the outside in order to survive and provide its nutriment, but at the same time so detailed and complicated on the inside. The interiors are filled with a primeval haze, where the patients can live without restrain their disease and the “sacred” aspects of their illness. The space is simple but detailed, where “beauty” becomes one the most valuable criteria both on the planning and the therapeutic level: clear, transparent or opalescent shapes, where the eye could wander or read specific info or contents. A dense core, made of words and movements, a warm and muffled nest surrounded by a layout that opens up to a “plasma” made by the inner membranes, dividing the interiors in laboratories, rooms for caregivers or patients, therapies and meetings, screens gradually defining, with their decreasing density, the return to “sanity”, outside in the city. Four simmetric spaces with specific features and independence, but at the same time parts of a strong net of cohesion, all sharing a common aim, that of giving the patients a place where safely live their condition under a new language, aestethics, a permanent link to the ouside and the contemporary environment, avoiding the trivial hospital-like solution, letting always something from the outside in, so that the patients could feel “something else”, belonging to that world, that past slowly fading away.

Il progetto del Cafè Alzheimer muove da presupposti nuovi, da una sperimentazione tesa a interpretare in maniera innovativa una problematica non più risolvibile attraverso schemi di pensiero tradizionali: il morbo di Alzheimer, gravissima e tragica patologia neurologica degenerativa, riveste a pieni titoli il drammatico ruolo di malattia del secolo, che mina la coscienza fragile e inquieta dell’uomo contemporaneo fino a decretarne la definitiva e irrimediabile scomparsa. “Normalità” e “pazzia” non sono più istanze distinte, dai contorni netti e continuamente ritracciabili, ma scivolano l’una nell’altra, emblemi del rimpasto perpetuo di una realtà in perenne trasformazione e deformazione. Come diretta conseguenza di queste continue sovrapposizioni e intrecci, l’ambiente progettato non può che essere un diaframma poroso, permeabile al contesto metropolitano in cui si situa e di cui si propone di diventare organismo dipendente, in costante e completa osmosi con il contesto, attraversabile e flessibile nella sua configurazione elastica e deformabile: non esiste un protocollo di regole da seguire per la progettazione di uno spazio così particolare, ma soltanto lasciandosi alle spalle una cultura del progetto che vuole l’immutabile, il definitivo, il solido e massiccio si può rispondere a dicotomie chiave che identificano il problema. Lo spazio si fa interprete della condizione di estrema dissolvenza e sospensione del malato di Alzheimer, dove però gli ambienti si compenetrano e si sovrappongono, si intrecciano e si susseguono in una continuità visiva e percettiva che si traduce in reti, trasparenze, lattiginosi perimetri che rendono lo spazio più o meno permeabile alla vista e al contesto. Il Caffè si muove, si deforma elasticamente, pulsa come una cellula, protesa verso l’esterno per poter sopravvivere ma anche estremamente complessa e raffinata all’interno: le atmosfere si scambiano, si assottigliano fino a diventare nebbie primordiali dove il malato può vivere la sacralità della sua liberazione. E’ un organismo estremamente evoluto ma semplice, teso a una continua affinazione che porta ad eleganza formale, nitidezza delle intenzioni progettuali e altissimo valore estetico. La bellezza assume in maniera definitiva e inequivocabile lo status di elemento progettuale e terapeutico: forme pulite, opalescenti e trasparenti, dove lo sguardo si perde in profondità o si fissa su informazioni chiare e precise. Un nucleo denso, agglomerato di gesti e parole, un nido caldo e ovattato attorno a cui l’intreccio si apre e si sfilaccia fino a dissolversi e mescolarsi, a livello della membrana più esterna, con la realtà circostante; un plasma popolato di membrane più interne che delimitano in maniera effimera bolle di attività, laboratori, incontri e terapia che si confrontano con una serie di diaframmi più o meno leggibili, più o meno fitti, che determinano il graduale rientro nella dimensione della “normalità”. Quattro spazi simmetrici, corollario al caffè centrale, dotati ognuno di caratteristiche proprie e indipendenti, ma allo stesso tempo inserite in un sistema che richiede un continuo rapporto e confronto con l’esterno, con i fruitori, con i malati e gli spazi comuni. Ambienti destinati alla terapia, al riposo e alla cura sia del care-giver che del malato; alla privacy, all’isolamento, alternando momenti di stimolazione a pause di recupero e sospensione, con l’intenzione di fornire al malato gli strumenti adeguati attraverso qualità ambientali innovative e semplici, ma chiare nel loro messaggio e nella loro destinazione. Evitando un ambiente eccessivamente stratificato, ma riducendolo alle sue caratteristiche essenziali e necessarie, il progetto si propone la realizzazione di ambienti interni capaci di sussistere in maniera autonoma, ma allo stesso tempo legati dall’intento comune di permettere al malato di vivere con serenità e sicurezza la propria condizione; il malato è libero di muoversi tra questi ambienti, caratterizzati in modo tale da enfatizzare i punti di interesse e nascondere ciò che invece ha altri destinatari e utilità, arrivando a creare un nuovo linguaggio e una nuova estetica dedicata al tema, troppo spesso risolto con elementi presi gratuitamente a prestito da altri ambiti. Un ambiente esteticamente valido, funzionale, che comunica un’intenzione precisa ma che allo stesso tempo è capace di riconfigurarsi per accogliere il malato e accudirlo: una dimensione sospesa, che non manca però di rimandi continui al contesto, per non cadere nella facile semplificazione che porta a dimenticare l’umanità del malato e la necessità di mantenere un costante riferimento al mondo esterno, sia naturale che artificiale e costruito, trasformato in un layer sotterraneo, quasi invisibile e a tratti appena percepibile, che non turba ma che anzi comunica come un perenne rumore di fondo l’esistenza di “altro”, di una base forte e consistente che mantiene tutto ancorato a quel residuo di realtà che il malato ancora insegue.

(L)abilità : progetto di un café Alzheimer. Riflessioni sulla fragilità dell'uomo contemporaneo

LAVATELLI, LIDIA CRISTINA
2009/2010

Abstract

The Cafè Alzheimer Project starts with a significant change in the traditional thiking of the elderly care spaces: from a rigid hospital-like environment to a place where the quality of atmosphere, materials, solutions is part of the healing process itself. The Alzheimer Disease has earned the title of “disease of the Century”, which dramatically erodes the most private and inner part of a human being: the personality, the memories of an entire lifetime are just wiped out by a silent and relentless enemy. “Sanity” and “insanity” are no longer opposite terms, they overlap, the mix up into something new, born from the ever-changing reality: as a direct consequence of this, the Cafè changes into an ephemeral screen, weak against the city and its noises, which permeate the atmosphere and the interiors in a strong osmotic process, a neverending stream, allowing a mutual growth and exchange of informations and experiences. The interiors – made of nets, transparencies, milky and foggy boundaries – are linked to the permanent state of absence, typical of the disease; the Cafè changes along with the city, its users, the patients, the families, it throbs like a cell, opened up to the outside in order to survive and provide its nutriment, but at the same time so detailed and complicated on the inside. The interiors are filled with a primeval haze, where the patients can live without restrain their disease and the “sacred” aspects of their illness. The space is simple but detailed, where “beauty” becomes one the most valuable criteria both on the planning and the therapeutic level: clear, transparent or opalescent shapes, where the eye could wander or read specific info or contents. A dense core, made of words and movements, a warm and muffled nest surrounded by a layout that opens up to a “plasma” made by the inner membranes, dividing the interiors in laboratories, rooms for caregivers or patients, therapies and meetings, screens gradually defining, with their decreasing density, the return to “sanity”, outside in the city. Four simmetric spaces with specific features and independence, but at the same time parts of a strong net of cohesion, all sharing a common aim, that of giving the patients a place where safely live their condition under a new language, aestethics, a permanent link to the ouside and the contemporary environment, avoiding the trivial hospital-like solution, letting always something from the outside in, so that the patients could feel “something else”, belonging to that world, that past slowly fading away.
GALLI, CHRISTIAN
ARC III - Facolta' del Design
1-apr-2011
2009/2010
Il progetto del Cafè Alzheimer muove da presupposti nuovi, da una sperimentazione tesa a interpretare in maniera innovativa una problematica non più risolvibile attraverso schemi di pensiero tradizionali: il morbo di Alzheimer, gravissima e tragica patologia neurologica degenerativa, riveste a pieni titoli il drammatico ruolo di malattia del secolo, che mina la coscienza fragile e inquieta dell’uomo contemporaneo fino a decretarne la definitiva e irrimediabile scomparsa. “Normalità” e “pazzia” non sono più istanze distinte, dai contorni netti e continuamente ritracciabili, ma scivolano l’una nell’altra, emblemi del rimpasto perpetuo di una realtà in perenne trasformazione e deformazione. Come diretta conseguenza di queste continue sovrapposizioni e intrecci, l’ambiente progettato non può che essere un diaframma poroso, permeabile al contesto metropolitano in cui si situa e di cui si propone di diventare organismo dipendente, in costante e completa osmosi con il contesto, attraversabile e flessibile nella sua configurazione elastica e deformabile: non esiste un protocollo di regole da seguire per la progettazione di uno spazio così particolare, ma soltanto lasciandosi alle spalle una cultura del progetto che vuole l’immutabile, il definitivo, il solido e massiccio si può rispondere a dicotomie chiave che identificano il problema. Lo spazio si fa interprete della condizione di estrema dissolvenza e sospensione del malato di Alzheimer, dove però gli ambienti si compenetrano e si sovrappongono, si intrecciano e si susseguono in una continuità visiva e percettiva che si traduce in reti, trasparenze, lattiginosi perimetri che rendono lo spazio più o meno permeabile alla vista e al contesto. Il Caffè si muove, si deforma elasticamente, pulsa come una cellula, protesa verso l’esterno per poter sopravvivere ma anche estremamente complessa e raffinata all’interno: le atmosfere si scambiano, si assottigliano fino a diventare nebbie primordiali dove il malato può vivere la sacralità della sua liberazione. E’ un organismo estremamente evoluto ma semplice, teso a una continua affinazione che porta ad eleganza formale, nitidezza delle intenzioni progettuali e altissimo valore estetico. La bellezza assume in maniera definitiva e inequivocabile lo status di elemento progettuale e terapeutico: forme pulite, opalescenti e trasparenti, dove lo sguardo si perde in profondità o si fissa su informazioni chiare e precise. Un nucleo denso, agglomerato di gesti e parole, un nido caldo e ovattato attorno a cui l’intreccio si apre e si sfilaccia fino a dissolversi e mescolarsi, a livello della membrana più esterna, con la realtà circostante; un plasma popolato di membrane più interne che delimitano in maniera effimera bolle di attività, laboratori, incontri e terapia che si confrontano con una serie di diaframmi più o meno leggibili, più o meno fitti, che determinano il graduale rientro nella dimensione della “normalità”. Quattro spazi simmetrici, corollario al caffè centrale, dotati ognuno di caratteristiche proprie e indipendenti, ma allo stesso tempo inserite in un sistema che richiede un continuo rapporto e confronto con l’esterno, con i fruitori, con i malati e gli spazi comuni. Ambienti destinati alla terapia, al riposo e alla cura sia del care-giver che del malato; alla privacy, all’isolamento, alternando momenti di stimolazione a pause di recupero e sospensione, con l’intenzione di fornire al malato gli strumenti adeguati attraverso qualità ambientali innovative e semplici, ma chiare nel loro messaggio e nella loro destinazione. Evitando un ambiente eccessivamente stratificato, ma riducendolo alle sue caratteristiche essenziali e necessarie, il progetto si propone la realizzazione di ambienti interni capaci di sussistere in maniera autonoma, ma allo stesso tempo legati dall’intento comune di permettere al malato di vivere con serenità e sicurezza la propria condizione; il malato è libero di muoversi tra questi ambienti, caratterizzati in modo tale da enfatizzare i punti di interesse e nascondere ciò che invece ha altri destinatari e utilità, arrivando a creare un nuovo linguaggio e una nuova estetica dedicata al tema, troppo spesso risolto con elementi presi gratuitamente a prestito da altri ambiti. Un ambiente esteticamente valido, funzionale, che comunica un’intenzione precisa ma che allo stesso tempo è capace di riconfigurarsi per accogliere il malato e accudirlo: una dimensione sospesa, che non manca però di rimandi continui al contesto, per non cadere nella facile semplificazione che porta a dimenticare l’umanità del malato e la necessità di mantenere un costante riferimento al mondo esterno, sia naturale che artificiale e costruito, trasformato in un layer sotterraneo, quasi invisibile e a tratti appena percepibile, che non turba ma che anzi comunica come un perenne rumore di fondo l’esistenza di “altro”, di una base forte e consistente che mantiene tutto ancorato a quel residuo di realtà che il malato ancora insegue.
Tesi di laurea Magistrale
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