The title of this paper, "Ignored Realm", picks up the title that architect Rem Koolhaas gives to the introductory chapter of his book "Countryside, a report"; ignored, for the director of the AMO research studio, is the agricultural territory - the "countryside" to be precise - which, within the urban-centric logic that conditions our interest, loses value. Today, the urban condition is the main aspiration pursued by the majority of the world's population: 70% of them will live in an urban condition by 2050. The growth of the inhabitants of planet Earth is in constant exponential increase - reaching 8 billion at the time I am writing these lines - we see how this represents an alarming fact. The growth of cities becomes the apparent only solution to accommodate the new urban offspring that will settle there. All this at the expense of agricultural land, whose presence will end up being delegated to those low-income countries not yet invested in urban acceleration, and in western cities the only bogeyman of cultivation will remain the mossy walls in shopping centre toilets, complete with a label on the amount of CO2 absorbed. Supermarket shelves will become the only territory where vegetables will 'grow', where calves will be 'bred' and eggs 'hatched'. Must we give up? Does agricultural land have to be ignored? Perhaps this order can be subverted from today's unstable condition. The term 'ignored' derives from 'unknown/unfamiliar': that which generates in us a sense of disquiet and insecurity, that which fascinates us and creates curiosity. We live today in a historical period where insecurity permeates our lives: urban-centric logic has led us to lose contact with and disregard what we used to call Nature: we thought the world was a territory to be discovered, a perennial America to be exploited and served as our only diners; today we wonder how it is possible that it comes to demand reparations for a war we did not know we were fighting. The uncertainty born of this time reigns as much in our daily lives as in the spaces of our cities. In the same way that we thought globalisation would lead us all to be the same, we discover that we are more diverse than ever. In addition to this social condition, globalising thought theorised a common post-Fordist vision according to which cities would expand, spreading like water droplets as one moved away from the centre, preserving in them a condition of complete homogeneity. Today, this utopia is not fulfilled: the suburbs take on the connotations of heterogeneous territories, a mix of fabrics of different origins: industrial, agricultural, residential. We recognise in these economic dynamics the source of our insecurity, so why not leave aside the common name Anthropocene, daughter of a thought that sees in the homogenised Human Being and elevated to divinity the sole cause of our malaises, and take on the definition of Capitalocene? We have stumbled into a historical period devoid of reference points, where the constant and historical Human/Nature opposition - and consequently City/Country - loses its place to a vision that takes into account what we thought was inert: in Gaia, the totality of these beings composed of single-celled apparatuses, among which we are part without any supremacy, finds its name. In this crisis of paradigms hitherto taken for granted, the peri-urban fabric represents in my personal vision the territory of rebirth. If we are to overcome the globalising and uniform vision, in order to make room for a multiform logic capable of taking into consideration the differing needs of the 'peoples' who inhabit our everyday life, it is necessary to start from the peri-urban fabric, a space that is the protagonist of continuous confrontations: between City and Countryside, between Human and Human, between Urban Man and Peasant Man, between Species Man and the Other-than-Man. Why not start from the most unstable territory of the entire context, victim of progressive urbanisation processes that will lead it to be incorporated within the city, losing the heterogeneous characteristics that characterise it, in order to rethink new models of the city, forms of coexistence that are unprecedented and currently unthinkable? Architecture in this sense plays a fundamental role, taking on the burden of representing a point of reference within unknown territories, becoming the theatre of interactions that bring us into a multi-species vision, capable of modifying the paradigm of the city. We must transform this condition of insecurity into an opportunity, we must overcome the Capitalocene and enter the Chthulucene!

Il titolo di questo elaborato, "Ignored Realm", riprende la titolazione che l'architetto Rem Koolhaas dà al capitolo introduttivo del libro "Countryside, a report"; ignorato, per il direttore dello studio di ricerca AMO, è il territorio agricolo - il "countryside" per l'appunto - che, all'interno della logica urbanocentrica che condiziona il nostro interesse, perde valore. Oggi la condizione di cittadino è l'aspirazione principale che la maggioranza della popolazione mondiale va perseguendo: il 70% di essa vivrà in una condizione urbana entro il 2050. Inserendo il dato all'interno di un ragionamento che vede la crescita degli abitanti del pianeta Terra in costante aumento esponenziale - raggiungendo 8 miliardi nel momento in cui sto scrivendo queste righe - vediamo come ciò rappresenti un dato allarmante. Le crescita delle città diventa l'apparente unica soluzione utile ad accogliere la nuova prole urbana che qui si insedierà. Tutto questo a discapito dei territori agricoli, la cui presenza finirà per essere delegata a quei paesi a basso reddito non ancora investiti da un'accelerazione urbana e nelle città occidentali l'unico spauracchio di coltivazione resteranno le pareti di muschio nei bagni dei centri commerciali, corredati di targhetta relativa alla quantità di CO2 assorbita. Gli scaffali dei supermercati diventeranno l'unico territorio dove "crescerà" la verdura, dove verranno "allevati" i vitelli e "covate" le uova. Dobbiamo forse darci per vinti? Il territorio agricolo deve essere per forza ignorato? Forse questo ordine può essere sovvertito a partire dalla condizione di instabilità odierna. Il termine "ignorato" deriva da "ignoto/sconosciuto": ciò che genera in noi un senso di inquietudine e insicurezza, ciò che ci affascina e crea curiosità. Viviamo oggi un periodo storico dove l’insicurezza permea le nostre vite: l'urbanocentrismo ci ha portato a perdere il contatto e disconoscere ciò che chiamavano Natura: pensavamo che il mondo fosse un territorio da scoprire, una perenne America da sfruttare e di cui servirci come unici commensali; oggi ci domandiamo come sia possibile che questa venga a chiedere il risarcimento di una guerra che non sapevamo di combattere. L’incertezza figlia di questo tempo regna sovrana tanto nelle nostre vite quotidiane quanto negli spazi delle nostre città. Nello stesso modo in cui si pensava che la globalizzazione ci avrebbe portato ad essere tutti uguali, scopriamo di essere più diversi che mai. Oltre a questa condizione sociale, il pensiero globalizzante ha teorizzato una visione comune post-fordista secondo cui le città si sarebbero allargate, diffondendosi come goccioline d'acqua mano a mano che ci si allontanava dal centro, conservando in esse una condizione di completa omogeneità. Oggi questa utopia non trova riscontro: le periferie assumono i connotati di territori eterogenei, mixitè di tessuti di diversa origine: industriale, agricola, residenziale. Riconosciamo in queste dinamiche economiche la fonte della nostra insicurezza, perché quindi non lasciare da parte la comune denominazione Antropocene, figlia di un pensiero che vede nell'Essere Umano omogenizzato ed elevato a divinità la causa unica dei nostri malesseri, e prendere in carico la definizione di Capitalocene? Siamo imbattuti in un periodo storico privo di punti di riferimento, dove la costante e storica contrapposizione Umano/Natura - e di conseguenza Città/Campagna - perde il posto nei confronti di una visione che prende in considerazione ciò che pensavamo fosse inerte: in Gaia trova nome la totalità di questi esseri composti da apparati monocellulari, tra i quali noi facciamo parte senza supremazia alcuna. In questa crisi di paradigmi dati finora per certi il tessuto periurbano rappresenta nella mia personale visione il territorio di rinascita. Se dobbiamo superare la visione globalizzante e uniforme, per lasciare spazio ad una logica multiforme capace di prendere in considerazione le esigenze difformi dei "popoli" che abitano la nostra quotidianità, è necessario partire dal tessuto periurbano, spazio protagonista di continui confronti: tra Città e Campagna, tra Umano e Umano, tra l'Uomo Urbano e l'Uomo Contadino, tra l'Uomo Specie e l'Altro-dall'uomo. Perché non partire dal territorio più instabile dell'intero contesto, vittima di processi di urbanizzazione progressiva che porteranno ad inglobarlo all'interno della città perdendo le caratteristiche eterogenee che lo caratterizzano, per ripensare a nuovi modelli di città, forme di convivenza inedita e attualmente impensabili? L'architettura in questo senso gioca un ruolo fondamentale, assumendosi l'onere di rappresentare un punto di riferimento all'interno di territori sconosciuti, diventando teatro di interazioni che ci portino all'interno di una visione multispecie, capace di modificare il paradigma di città. Bisogna trasformare questa condizione di insicurezza in una ricchezza, bisogna superare il Capitalocene ed entrare nello Chthulucene!

Ignored realm : visioni urbane multispecie

Omini, Agostino
2021/2022

Abstract

The title of this paper, "Ignored Realm", picks up the title that architect Rem Koolhaas gives to the introductory chapter of his book "Countryside, a report"; ignored, for the director of the AMO research studio, is the agricultural territory - the "countryside" to be precise - which, within the urban-centric logic that conditions our interest, loses value. Today, the urban condition is the main aspiration pursued by the majority of the world's population: 70% of them will live in an urban condition by 2050. The growth of the inhabitants of planet Earth is in constant exponential increase - reaching 8 billion at the time I am writing these lines - we see how this represents an alarming fact. The growth of cities becomes the apparent only solution to accommodate the new urban offspring that will settle there. All this at the expense of agricultural land, whose presence will end up being delegated to those low-income countries not yet invested in urban acceleration, and in western cities the only bogeyman of cultivation will remain the mossy walls in shopping centre toilets, complete with a label on the amount of CO2 absorbed. Supermarket shelves will become the only territory where vegetables will 'grow', where calves will be 'bred' and eggs 'hatched'. Must we give up? Does agricultural land have to be ignored? Perhaps this order can be subverted from today's unstable condition. The term 'ignored' derives from 'unknown/unfamiliar': that which generates in us a sense of disquiet and insecurity, that which fascinates us and creates curiosity. We live today in a historical period where insecurity permeates our lives: urban-centric logic has led us to lose contact with and disregard what we used to call Nature: we thought the world was a territory to be discovered, a perennial America to be exploited and served as our only diners; today we wonder how it is possible that it comes to demand reparations for a war we did not know we were fighting. The uncertainty born of this time reigns as much in our daily lives as in the spaces of our cities. In the same way that we thought globalisation would lead us all to be the same, we discover that we are more diverse than ever. In addition to this social condition, globalising thought theorised a common post-Fordist vision according to which cities would expand, spreading like water droplets as one moved away from the centre, preserving in them a condition of complete homogeneity. Today, this utopia is not fulfilled: the suburbs take on the connotations of heterogeneous territories, a mix of fabrics of different origins: industrial, agricultural, residential. We recognise in these economic dynamics the source of our insecurity, so why not leave aside the common name Anthropocene, daughter of a thought that sees in the homogenised Human Being and elevated to divinity the sole cause of our malaises, and take on the definition of Capitalocene? We have stumbled into a historical period devoid of reference points, where the constant and historical Human/Nature opposition - and consequently City/Country - loses its place to a vision that takes into account what we thought was inert: in Gaia, the totality of these beings composed of single-celled apparatuses, among which we are part without any supremacy, finds its name. In this crisis of paradigms hitherto taken for granted, the peri-urban fabric represents in my personal vision the territory of rebirth. If we are to overcome the globalising and uniform vision, in order to make room for a multiform logic capable of taking into consideration the differing needs of the 'peoples' who inhabit our everyday life, it is necessary to start from the peri-urban fabric, a space that is the protagonist of continuous confrontations: between City and Countryside, between Human and Human, between Urban Man and Peasant Man, between Species Man and the Other-than-Man. Why not start from the most unstable territory of the entire context, victim of progressive urbanisation processes that will lead it to be incorporated within the city, losing the heterogeneous characteristics that characterise it, in order to rethink new models of the city, forms of coexistence that are unprecedented and currently unthinkable? Architecture in this sense plays a fundamental role, taking on the burden of representing a point of reference within unknown territories, becoming the theatre of interactions that bring us into a multi-species vision, capable of modifying the paradigm of the city. We must transform this condition of insecurity into an opportunity, we must overcome the Capitalocene and enter the Chthulucene!
FRANGIPANE, MARIANNA
ARC I - Scuola di Architettura Urbanistica Ingegneria delle Costruzioni
20-dic-2022
2021/2022
Il titolo di questo elaborato, "Ignored Realm", riprende la titolazione che l'architetto Rem Koolhaas dà al capitolo introduttivo del libro "Countryside, a report"; ignorato, per il direttore dello studio di ricerca AMO, è il territorio agricolo - il "countryside" per l'appunto - che, all'interno della logica urbanocentrica che condiziona il nostro interesse, perde valore. Oggi la condizione di cittadino è l'aspirazione principale che la maggioranza della popolazione mondiale va perseguendo: il 70% di essa vivrà in una condizione urbana entro il 2050. Inserendo il dato all'interno di un ragionamento che vede la crescita degli abitanti del pianeta Terra in costante aumento esponenziale - raggiungendo 8 miliardi nel momento in cui sto scrivendo queste righe - vediamo come ciò rappresenti un dato allarmante. Le crescita delle città diventa l'apparente unica soluzione utile ad accogliere la nuova prole urbana che qui si insedierà. Tutto questo a discapito dei territori agricoli, la cui presenza finirà per essere delegata a quei paesi a basso reddito non ancora investiti da un'accelerazione urbana e nelle città occidentali l'unico spauracchio di coltivazione resteranno le pareti di muschio nei bagni dei centri commerciali, corredati di targhetta relativa alla quantità di CO2 assorbita. Gli scaffali dei supermercati diventeranno l'unico territorio dove "crescerà" la verdura, dove verranno "allevati" i vitelli e "covate" le uova. Dobbiamo forse darci per vinti? Il territorio agricolo deve essere per forza ignorato? Forse questo ordine può essere sovvertito a partire dalla condizione di instabilità odierna. Il termine "ignorato" deriva da "ignoto/sconosciuto": ciò che genera in noi un senso di inquietudine e insicurezza, ciò che ci affascina e crea curiosità. Viviamo oggi un periodo storico dove l’insicurezza permea le nostre vite: l'urbanocentrismo ci ha portato a perdere il contatto e disconoscere ciò che chiamavano Natura: pensavamo che il mondo fosse un territorio da scoprire, una perenne America da sfruttare e di cui servirci come unici commensali; oggi ci domandiamo come sia possibile che questa venga a chiedere il risarcimento di una guerra che non sapevamo di combattere. L’incertezza figlia di questo tempo regna sovrana tanto nelle nostre vite quotidiane quanto negli spazi delle nostre città. Nello stesso modo in cui si pensava che la globalizzazione ci avrebbe portato ad essere tutti uguali, scopriamo di essere più diversi che mai. Oltre a questa condizione sociale, il pensiero globalizzante ha teorizzato una visione comune post-fordista secondo cui le città si sarebbero allargate, diffondendosi come goccioline d'acqua mano a mano che ci si allontanava dal centro, conservando in esse una condizione di completa omogeneità. Oggi questa utopia non trova riscontro: le periferie assumono i connotati di territori eterogenei, mixitè di tessuti di diversa origine: industriale, agricola, residenziale. Riconosciamo in queste dinamiche economiche la fonte della nostra insicurezza, perché quindi non lasciare da parte la comune denominazione Antropocene, figlia di un pensiero che vede nell'Essere Umano omogenizzato ed elevato a divinità la causa unica dei nostri malesseri, e prendere in carico la definizione di Capitalocene? Siamo imbattuti in un periodo storico privo di punti di riferimento, dove la costante e storica contrapposizione Umano/Natura - e di conseguenza Città/Campagna - perde il posto nei confronti di una visione che prende in considerazione ciò che pensavamo fosse inerte: in Gaia trova nome la totalità di questi esseri composti da apparati monocellulari, tra i quali noi facciamo parte senza supremazia alcuna. In questa crisi di paradigmi dati finora per certi il tessuto periurbano rappresenta nella mia personale visione il territorio di rinascita. Se dobbiamo superare la visione globalizzante e uniforme, per lasciare spazio ad una logica multiforme capace di prendere in considerazione le esigenze difformi dei "popoli" che abitano la nostra quotidianità, è necessario partire dal tessuto periurbano, spazio protagonista di continui confronti: tra Città e Campagna, tra Umano e Umano, tra l'Uomo Urbano e l'Uomo Contadino, tra l'Uomo Specie e l'Altro-dall'uomo. Perché non partire dal territorio più instabile dell'intero contesto, vittima di processi di urbanizzazione progressiva che porteranno ad inglobarlo all'interno della città perdendo le caratteristiche eterogenee che lo caratterizzano, per ripensare a nuovi modelli di città, forme di convivenza inedita e attualmente impensabili? L'architettura in questo senso gioca un ruolo fondamentale, assumendosi l'onere di rappresentare un punto di riferimento all'interno di territori sconosciuti, diventando teatro di interazioni che ci portino all'interno di una visione multispecie, capace di modificare il paradigma di città. Bisogna trasformare questa condizione di insicurezza in una ricchezza, bisogna superare il Capitalocene ed entrare nello Chthulucene!
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/10589/196557