A rapid sequence of unordinary events that are chained to each other. The rush of longing towards absence, lack. The whole narrative of our existence is threatened by the looming death, against which we struggle desperately by clinging to life strings. Here, right here, architecture steps in: “L’architettura è - instead - fatta per la vita. Essa ignora la morte perché è destinata, sempre e ancora, ad accogliere ‘gente nuova’. È lo scenario artificiale che l’uomo costruisce per custodire, momentaneamente, il proprio corpo esposto al pericolo della natura. Rappresenta un guscio di sicurezza nel quale nascere, vivere, morire”.1 This shell is, first and foremost, the home. The one that holds within its walls one of the historically strongest bonds, the archetypal private space of family and sharing, a place of belonging. And yet, the most recent socio-economic upheavals to which the city and man are subject, have had important spatial effects, putting us face to face with the risk of obsolescence of the traditional value of the house as domus. The rising ‘volatility’ of contemporary society that inhabits and moves within urban space, creates a commuting pressure that makes the notion of ‘edge’ an impalpable, temporally mobile reality, infinitely dilatable. In a time where cities lose the strength of their physical boundary, the new spatial forms become temporary and their limits are set by their inhabitants. Architecture thus becomes a spatial action on duration, a spell that acts both on space and time flow, either contracting or dilating it. Inevitably, living becomes temporary and the house becomes a dot in the limitless space of the sprawling city. Despite the hypertrophic dematerialisation of borders and the fading of an univocal place of belonging, architecture retains the hidden power to embrace man within himself. It basically moves us towards the quest for a new permanence. This claim carries a hope, or perhaps a desire; the awareness of having to rebuild a symbol - the home - which has lost its way. And so the house has once again become, openly, the domestic haven, the place that guards and protects, that represents the primary and primordial sense of dwelling, in a stopping-off city. However, no one inhabiting the new home becomes a lasting witness of the life that takes place in it. This critical theoretical approach impacts on how to design housing and works on the urban regeneration of the functional voids of the compact city, those unfinished produced by the rapid urban development. To them, too, death is denied. This is the case of the Stazione auto-cuccette di San Cristoforo, of which only the bare concrete frame remains, holding the potential of the life it has not yet lived. The freedom that lies in the unexplored potential of this unfinished building reminds us how the room has no use per se, but is rather a spatial phenomenon capable of rebuilding that sense of belonging that has been progressively lost. The project approaches the theme of living by defining a conceptual model even before becoming strictly architectural. Replicable throughout the metropolitan city, the micro-units that fit rhythmically into this modular skeleton diverge from traditional typologies and respond to the housing demand of the ‘citizens of the world’. Thus, the temporary home is born.

Una successione rapida di avvenimenti tutti fuori dall’ordinario che s’incatenano l’uno all’altro. La corsa del desiderio verso un’assenza, una mancanza. L’intero racconto della nostra esistenza è percorso dalla sensazione dell’incombenza della morte, cui ci dibattiamo affannosamente aggrappandoci ai legami della vita. Ed ecco, proprio qui, che interviene l’architettura: “L’architettura è - invece - fatta per la vita. Essa ignora la morte perché è destinata, sempre e ancora, ad accogliere ‘gente nuova’. È lo scenario artificiale che l’uomo costruisce per custodire, momentaneamente, il proprio corpo esposto al pericolo della natura. Rappresenta un guscio di sicurezza nel quale nascere, vivere, morire”.1 Questo guscio è, prima di tutto, la casa. Colei che custodisce entro le sue mura uno dei legami storicamente più forti, intesa come archetipo dello spazio privato della famiglia e della condivisione, luogo di appartenenza per eccellenza. Eppure, i più recenti stravolgimenti socio-economici cui la città e l’uomo sono sottoposti, hanno avuto importanti ricadute spaziali, ponendoci di fronte al rischio di obsolescenza del valore della casa tradizionalmente intesa come domus. La crescente ‘volatilità’ della società contemporanea che abita e si muove all’interno dello spazio urbano, crea una pressione pendolare che fa del concetto di ‘bordo’ una realtà impalpabile, temporalmente mobile, capace di dilatarsi infinitamente. In un periodo storico in cui la città perde la forza dei suoi contorni fisici, le nuove declinazioni spaziali assumono dunque un carattere temporaneo, in cui ciò che le delimita è definito da chi le abita. L’architettura diviene così una operazione fisica sulla durata, un incantesimo che agisce non solo sullo spazio, ma anche sullo scorrere del tempo, contraendolo o dilatandolo. Inevitabilmente, l’azione dell’abitare diventa temporanea e la residenza un oggetto puntiforme nello spazio infinito della città diffusa. Nonostante la smaterializzazione ipertrofica dei confini e il dissolvimento di un luogo univoco di appartenenza, l’architettura conserva la potenza nascosta di avvolgere l’uomo in sé stesso. Sostanzialmente, ci muove verso il desiderio di una rinnovata stanzialità. Tale affermazione contiene per noi una speranza, o forse un desiderio; la consapevolezza della necessità di una rifondazione di un simbolo - quello della casa - che ha perduto la strada. E così la casa è tornata ad essere, in modo esplicito, il rifugio domestico, il luogo che custodisce e protegge, che rappresenta il senso primario e primordiale dell’abitare, in una città che è solo di passaggio. Tuttavia, nessun occupante della nuova casa diventa testimone duraturo della vita che si svolge in essa. Queste considerazioni teorico-critiche impattano sul modo di progettare i luoghi dell’abitare e lavorano sul recupero e la rigenerazione urbana dei vuoti funzionali della città compatta, quei non-finiti prodotti dal rapido avanzamento urbano. Anche a loro, la morte viene negata. È questo il caso della Stazione auto-cuccette di San Cristoforo, di cui resta solo l’ossatura nuda in cemento, forte della potenzialità della vita che non ha ancora vissuto. La libertà che risiede proprio nelle inesplorate potenzialità di questo edificio non-finito ci ricorda in modo ineluttabile come la stanza non abbia nessun uso di per sé, ma sia piuttosto un fenomeno spaziale in grado di ricostruire quel senso di appartenenza che si è progressivamente perso. L’approccio con cui il progetto si affaccia al tema dell’abitare diviene dunque un caposaldo per definire un modello concettuale ancor prima che architettonico. Replicabili nella città metropolitana, le micro unità che si inseriscono ritmicamente in questo scheletro modulare si discostano dalle tipologie tradizionali e danno risposta alla domanda abitativa dei ‘cittadini del mondo’. Nasce, così, la casa transitoria.

La casa transitoria. Abitare la Stazione auto-cuccette di San Cristoforo

de Bartolo, Valentina;Curia, Martina
2021/2022

Abstract

A rapid sequence of unordinary events that are chained to each other. The rush of longing towards absence, lack. The whole narrative of our existence is threatened by the looming death, against which we struggle desperately by clinging to life strings. Here, right here, architecture steps in: “L’architettura è - instead - fatta per la vita. Essa ignora la morte perché è destinata, sempre e ancora, ad accogliere ‘gente nuova’. È lo scenario artificiale che l’uomo costruisce per custodire, momentaneamente, il proprio corpo esposto al pericolo della natura. Rappresenta un guscio di sicurezza nel quale nascere, vivere, morire”.1 This shell is, first and foremost, the home. The one that holds within its walls one of the historically strongest bonds, the archetypal private space of family and sharing, a place of belonging. And yet, the most recent socio-economic upheavals to which the city and man are subject, have had important spatial effects, putting us face to face with the risk of obsolescence of the traditional value of the house as domus. The rising ‘volatility’ of contemporary society that inhabits and moves within urban space, creates a commuting pressure that makes the notion of ‘edge’ an impalpable, temporally mobile reality, infinitely dilatable. In a time where cities lose the strength of their physical boundary, the new spatial forms become temporary and their limits are set by their inhabitants. Architecture thus becomes a spatial action on duration, a spell that acts both on space and time flow, either contracting or dilating it. Inevitably, living becomes temporary and the house becomes a dot in the limitless space of the sprawling city. Despite the hypertrophic dematerialisation of borders and the fading of an univocal place of belonging, architecture retains the hidden power to embrace man within himself. It basically moves us towards the quest for a new permanence. This claim carries a hope, or perhaps a desire; the awareness of having to rebuild a symbol - the home - which has lost its way. And so the house has once again become, openly, the domestic haven, the place that guards and protects, that represents the primary and primordial sense of dwelling, in a stopping-off city. However, no one inhabiting the new home becomes a lasting witness of the life that takes place in it. This critical theoretical approach impacts on how to design housing and works on the urban regeneration of the functional voids of the compact city, those unfinished produced by the rapid urban development. To them, too, death is denied. This is the case of the Stazione auto-cuccette di San Cristoforo, of which only the bare concrete frame remains, holding the potential of the life it has not yet lived. The freedom that lies in the unexplored potential of this unfinished building reminds us how the room has no use per se, but is rather a spatial phenomenon capable of rebuilding that sense of belonging that has been progressively lost. The project approaches the theme of living by defining a conceptual model even before becoming strictly architectural. Replicable throughout the metropolitan city, the micro-units that fit rhythmically into this modular skeleton diverge from traditional typologies and respond to the housing demand of the ‘citizens of the world’. Thus, the temporary home is born.
ARC I - Scuola di Architettura Urbanistica Ingegneria delle Costruzioni
4-mag-2023
2021/2022
Una successione rapida di avvenimenti tutti fuori dall’ordinario che s’incatenano l’uno all’altro. La corsa del desiderio verso un’assenza, una mancanza. L’intero racconto della nostra esistenza è percorso dalla sensazione dell’incombenza della morte, cui ci dibattiamo affannosamente aggrappandoci ai legami della vita. Ed ecco, proprio qui, che interviene l’architettura: “L’architettura è - invece - fatta per la vita. Essa ignora la morte perché è destinata, sempre e ancora, ad accogliere ‘gente nuova’. È lo scenario artificiale che l’uomo costruisce per custodire, momentaneamente, il proprio corpo esposto al pericolo della natura. Rappresenta un guscio di sicurezza nel quale nascere, vivere, morire”.1 Questo guscio è, prima di tutto, la casa. Colei che custodisce entro le sue mura uno dei legami storicamente più forti, intesa come archetipo dello spazio privato della famiglia e della condivisione, luogo di appartenenza per eccellenza. Eppure, i più recenti stravolgimenti socio-economici cui la città e l’uomo sono sottoposti, hanno avuto importanti ricadute spaziali, ponendoci di fronte al rischio di obsolescenza del valore della casa tradizionalmente intesa come domus. La crescente ‘volatilità’ della società contemporanea che abita e si muove all’interno dello spazio urbano, crea una pressione pendolare che fa del concetto di ‘bordo’ una realtà impalpabile, temporalmente mobile, capace di dilatarsi infinitamente. In un periodo storico in cui la città perde la forza dei suoi contorni fisici, le nuove declinazioni spaziali assumono dunque un carattere temporaneo, in cui ciò che le delimita è definito da chi le abita. L’architettura diviene così una operazione fisica sulla durata, un incantesimo che agisce non solo sullo spazio, ma anche sullo scorrere del tempo, contraendolo o dilatandolo. Inevitabilmente, l’azione dell’abitare diventa temporanea e la residenza un oggetto puntiforme nello spazio infinito della città diffusa. Nonostante la smaterializzazione ipertrofica dei confini e il dissolvimento di un luogo univoco di appartenenza, l’architettura conserva la potenza nascosta di avvolgere l’uomo in sé stesso. Sostanzialmente, ci muove verso il desiderio di una rinnovata stanzialità. Tale affermazione contiene per noi una speranza, o forse un desiderio; la consapevolezza della necessità di una rifondazione di un simbolo - quello della casa - che ha perduto la strada. E così la casa è tornata ad essere, in modo esplicito, il rifugio domestico, il luogo che custodisce e protegge, che rappresenta il senso primario e primordiale dell’abitare, in una città che è solo di passaggio. Tuttavia, nessun occupante della nuova casa diventa testimone duraturo della vita che si svolge in essa. Queste considerazioni teorico-critiche impattano sul modo di progettare i luoghi dell’abitare e lavorano sul recupero e la rigenerazione urbana dei vuoti funzionali della città compatta, quei non-finiti prodotti dal rapido avanzamento urbano. Anche a loro, la morte viene negata. È questo il caso della Stazione auto-cuccette di San Cristoforo, di cui resta solo l’ossatura nuda in cemento, forte della potenzialità della vita che non ha ancora vissuto. La libertà che risiede proprio nelle inesplorate potenzialità di questo edificio non-finito ci ricorda in modo ineluttabile come la stanza non abbia nessun uso di per sé, ma sia piuttosto un fenomeno spaziale in grado di ricostruire quel senso di appartenenza che si è progressivamente perso. L’approccio con cui il progetto si affaccia al tema dell’abitare diviene dunque un caposaldo per definire un modello concettuale ancor prima che architettonico. Replicabili nella città metropolitana, le micro unità che si inseriscono ritmicamente in questo scheletro modulare si discostano dalle tipologie tradizionali e danno risposta alla domanda abitativa dei ‘cittadini del mondo’. Nasce, così, la casa transitoria.
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Descrizione: La casa transitoria. Abitare la Stazione auto-cuccette di San Cristoforo
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/10589/202859