La nascita del carcere, come elemento del paesaggio urbano è storia recente e strettamente legata al magistero della pena, corporale prima, detentiva poi e all’affermazione della pena privativa della libertà, finalizzata alla redenzione e al cambiamento-interiore, e ciò coincide con la nascita del sistema penitenziario in senso moderno. Alquanto complesso risulta allora il tentativo di parlare di una cultura che fino alla prima metà del Settecento considerava le strutture carcerarie esclusivamente come luoghi di afflizione in cui venivano rinchiusi i detenuti soltanto affinché non si sottraessero alla giustizia: Carcer enim ad continendos homines non ad puniendos heberi debet. In Italia la storia dell’edilizia carceraria non può considerarsi come un succedersi di eventi radicali e significativi in quanto spesso l’esecuzione delle pene detentive nel nostro Paese si è avvalsa dei medesimi spazi edificati originariamente per altre funzioni. Tra carcere e società civile tutto si è svolto da principio in ossequio all’unico criterio dell’esclusione di alcuni cittadini dalla società civile, ciò nonostante il carcere è stato dal suo nascere, ed è, edificio per eccellenza del paesaggio urbano e alla storia delle città esso interamente appartiene: due realtà indissolubili, sia pure di segno opposto, che non sono riuscite a dialogare in maniera sinergica perché, soprattutto nell’ultimo ventennio, gli aspetti progettuali sono stati sacrificati ai criteri di sicurezza e svuotati di contenuti. Non si è ragionato in passato per spazi e forme dell’architettura: l’architettura è stata ostaggio di altre ragioni. Il carcere appare oggi come una realtà metafisica e consolidata, ma nella cultura antecedente il secolo XVIII era un luogo di afflizione, con lo scopo di tenere l’incolpato in custodia in attesa della condanna, senza pensare mai alla sua redenzione, cosa che avverrà invece con le istituzioni penali del tardo XVIII e del XIX secolo. Le utopie illuministe trasformarono profondamente il luogo prigione, fino ad allora visto 3come l’inferno in terra e luogo di infami torture fisiche, in spazio di riforma dello spirito, dove la punizione da corporale divenne preventiva, correttiva di un diritto di punire che apparteneva non più al sovrano ma all’intera società. Nel XVIII secolo molti, tra architetti e riformatori, pensarono che esistesse una relazione tra architettura e moralità, così, mentre per molto tempo l’ architettura carceraria si era interessata solo dell’esterno degli edifici lasciando la definizione degli spazi interni alla casualità, i nuovi edifici, le prigioni riformate, andarono oltre il concetto di un semplice posto per la punizione, divenendo il luogo della riabilitazione del criminale. Nessuna filosofia della detenzione ha però avuto un impatto più decisivo sia nella costruzione delle carceri che sull’intero universo morale del crimine e dell’espiazione, di quella di Jeremy Bentham, inventore del Panopticon, a cui si sono ispirati tutti gli architetti dalla seconda metà del Settecento in poi. Lo schema edilizio proposto da J. Bentham permetteva il continuo controllo, ai fini correzionali, del comportamento degli individui e nello stesso tempo l’abolizione delle catene,4 facendo salvo il principio che stava molto a cuore al suo autore, quello dell’ispezione, assicurare cioè, a chi è addetto al controllo, una visualità totale, garantita dalla forma circolare degli edifici e dalla presenza costante della torre centrale: una visualità a 360° per l’esercizio del potere assoluto. Viene allora sviluppandosi la problematica di un’architettura che non è più fatta per essere vista o per sorvegliare uno spazio esterno, ma che deve permettere un controllo interno articolato e dettagliato per rendere visibili coloro che vi si trovano, diventando essa stessa un’ operatore nella trasformazione degli individui. Utopia fascinosa ed inquietante quella di Bentham, propulsore dello schema utopico di una prigione modello, inedito luogo di una riforma sociale in cui un'unica persona è in grado di controllare le devianze di decine di individui e, come dice Michael Foucault, Bentham ha reso “la visibilità una trappola”. La tesi, quindi, svolge un lavoro di ricerca storica per conoscere quale è stato il primo concetto di prigione e quale era la mentalità dell’epoca riguardo al significato di “pena” e di “punizione”, attraversando tutte le epoche storiche fino ad arrivare ai giorni d’oggi. In particolare, si è preso come caso studio il carcere di San Vittore a Milano, che ancora oggi verte in condizioni poco vivibili: attraverso le interviste a persone che lavorano all’interno o che sono state detenute e rilasciate poco tempo fa, oltre alla possibilità di visitare personalmente la struttura penitenziaria, ho potuto descrivere come è suddiviso internamente il carcere e come sono attualmente le condizioni sia della struttura, sia dei detenuti. Ed infine, si è voluta dare un’impronta sul significato di abitare nei luoghi di detenzione. Per coloro che sono detenuti, l’architettura carceraria è il luogo dove essi risiedono: la loro nuova casa è la cella, ma anche gli altri spazi dell’edificio penitenziario rappresentano luoghi investiti di alcune funzioni abitative. Attraverso questo lavoro si vuole evidenziare le differenze che possono sussistere tra l’abitare comunemente conosciuto e il risiedere negli istituti penitenziari.

Architettura della reclusione : San Vittore a Milano

ROLOVICH, PATRICK ALEXANDRE
2010/2011

Abstract

La nascita del carcere, come elemento del paesaggio urbano è storia recente e strettamente legata al magistero della pena, corporale prima, detentiva poi e all’affermazione della pena privativa della libertà, finalizzata alla redenzione e al cambiamento-interiore, e ciò coincide con la nascita del sistema penitenziario in senso moderno. Alquanto complesso risulta allora il tentativo di parlare di una cultura che fino alla prima metà del Settecento considerava le strutture carcerarie esclusivamente come luoghi di afflizione in cui venivano rinchiusi i detenuti soltanto affinché non si sottraessero alla giustizia: Carcer enim ad continendos homines non ad puniendos heberi debet. In Italia la storia dell’edilizia carceraria non può considerarsi come un succedersi di eventi radicali e significativi in quanto spesso l’esecuzione delle pene detentive nel nostro Paese si è avvalsa dei medesimi spazi edificati originariamente per altre funzioni. Tra carcere e società civile tutto si è svolto da principio in ossequio all’unico criterio dell’esclusione di alcuni cittadini dalla società civile, ciò nonostante il carcere è stato dal suo nascere, ed è, edificio per eccellenza del paesaggio urbano e alla storia delle città esso interamente appartiene: due realtà indissolubili, sia pure di segno opposto, che non sono riuscite a dialogare in maniera sinergica perché, soprattutto nell’ultimo ventennio, gli aspetti progettuali sono stati sacrificati ai criteri di sicurezza e svuotati di contenuti. Non si è ragionato in passato per spazi e forme dell’architettura: l’architettura è stata ostaggio di altre ragioni. Il carcere appare oggi come una realtà metafisica e consolidata, ma nella cultura antecedente il secolo XVIII era un luogo di afflizione, con lo scopo di tenere l’incolpato in custodia in attesa della condanna, senza pensare mai alla sua redenzione, cosa che avverrà invece con le istituzioni penali del tardo XVIII e del XIX secolo. Le utopie illuministe trasformarono profondamente il luogo prigione, fino ad allora visto 3come l’inferno in terra e luogo di infami torture fisiche, in spazio di riforma dello spirito, dove la punizione da corporale divenne preventiva, correttiva di un diritto di punire che apparteneva non più al sovrano ma all’intera società. Nel XVIII secolo molti, tra architetti e riformatori, pensarono che esistesse una relazione tra architettura e moralità, così, mentre per molto tempo l’ architettura carceraria si era interessata solo dell’esterno degli edifici lasciando la definizione degli spazi interni alla casualità, i nuovi edifici, le prigioni riformate, andarono oltre il concetto di un semplice posto per la punizione, divenendo il luogo della riabilitazione del criminale. Nessuna filosofia della detenzione ha però avuto un impatto più decisivo sia nella costruzione delle carceri che sull’intero universo morale del crimine e dell’espiazione, di quella di Jeremy Bentham, inventore del Panopticon, a cui si sono ispirati tutti gli architetti dalla seconda metà del Settecento in poi. Lo schema edilizio proposto da J. Bentham permetteva il continuo controllo, ai fini correzionali, del comportamento degli individui e nello stesso tempo l’abolizione delle catene,4 facendo salvo il principio che stava molto a cuore al suo autore, quello dell’ispezione, assicurare cioè, a chi è addetto al controllo, una visualità totale, garantita dalla forma circolare degli edifici e dalla presenza costante della torre centrale: una visualità a 360° per l’esercizio del potere assoluto. Viene allora sviluppandosi la problematica di un’architettura che non è più fatta per essere vista o per sorvegliare uno spazio esterno, ma che deve permettere un controllo interno articolato e dettagliato per rendere visibili coloro che vi si trovano, diventando essa stessa un’ operatore nella trasformazione degli individui. Utopia fascinosa ed inquietante quella di Bentham, propulsore dello schema utopico di una prigione modello, inedito luogo di una riforma sociale in cui un'unica persona è in grado di controllare le devianze di decine di individui e, come dice Michael Foucault, Bentham ha reso “la visibilità una trappola”. La tesi, quindi, svolge un lavoro di ricerca storica per conoscere quale è stato il primo concetto di prigione e quale era la mentalità dell’epoca riguardo al significato di “pena” e di “punizione”, attraversando tutte le epoche storiche fino ad arrivare ai giorni d’oggi. In particolare, si è preso come caso studio il carcere di San Vittore a Milano, che ancora oggi verte in condizioni poco vivibili: attraverso le interviste a persone che lavorano all’interno o che sono state detenute e rilasciate poco tempo fa, oltre alla possibilità di visitare personalmente la struttura penitenziaria, ho potuto descrivere come è suddiviso internamente il carcere e come sono attualmente le condizioni sia della struttura, sia dei detenuti. Ed infine, si è voluta dare un’impronta sul significato di abitare nei luoghi di detenzione. Per coloro che sono detenuti, l’architettura carceraria è il luogo dove essi risiedono: la loro nuova casa è la cella, ma anche gli altri spazi dell’edificio penitenziario rappresentano luoghi investiti di alcune funzioni abitative. Attraverso questo lavoro si vuole evidenziare le differenze che possono sussistere tra l’abitare comunemente conosciuto e il risiedere negli istituti penitenziari.
ARC I - Scuola di Architettura e Società
21-dic-2011
2010/2011
Tesi di laurea Magistrale
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