La ricerca presentata all’interno di questo libro nasce dalla nostra esperienza diretta all’interno della città di Salvador de Bahia, Brasile. Questo contesto urbano, completamente diverso da quello a cui eravamo abituate, ha stimolato la nostra volontà di ricerca, partendo dalle origini, nel tentativo di intendere una città costruita sulla base di molteplici influenze, di conflitti, di segregazioni, di sovrapposizioni. Durante l’analisi ci siamo rese conto che, se Salvador si è sviluppata attraverso l’accumulo e la miscela di svariati elementi, altrettante sono le “città nella città” , che si sono formate lungo questo processo, città che “vivono l’una per l’altra, guardandosi negli occhi di continuo, ma non si amano” (Calvino, 1972). Si tratta di una trama, che intreccia tra loro identità culturali, tradizioni, classi sociali e stili di vita completamente diversi tra loro, che trovano nel contesto urbano il loro denominatore comune; è lo spazio della città che, attraverso l’imposizione della sua fisicità, costituisce lo scenario nel quale svariati mondi e infinite storie convivono. Una convivenza, questa, caratterizzata dal conflitto e dalla lotta continua per l’appropriazione dello spazio. In questo contesto, che trova le sue radici nell’ibridazione e nella miscela, i concetti di purezza ed unità propugnati dai nuovi progetti urbani assumono un altro significato, andando a rapprsentare l’imposizione di UNA identità culturale, di UNO stile di vita, di UNA classe sociale, di UN modello economico sugli altri, di un’egemonia sulle varie minoranze che condividono la stessa piattaforma urbana. Da queste premesse nasce la presa di coscienza della necessità di assumere un atteggiamento nuovo rispetto alle problematiche urbane e all’analisi della città in sè, che si contrapponga al processo di produzione urbana dominante, capitanato dalle grandi imprese edili, che porta con sé l’annullamento delle differenze in favore di una fittizia immagine unificata e unificante. La nostra via d’uscita rispetto alla logica della “spettacolarizzazione” degli spazi è rappresentata da un ritorno all’esperienza del quotidiano, dalla volontà di avvicinarci a quelle “città nella città” (che durante il corso del testo andremo a definire come isole) abbandonate, disprezzate, dimenticate, circondate, escluse. L’osservazione dall’interno di questi ambiti e delle loro dinamiche ci porta a una decostruzione di concetti urbanistici ortodossi, come la definizione di pubblico o privato, conseguente all’intendimento dello spazio urbano in quanto intreccio di contesti fisico-ambientali (forma) e socio-politici (contenuto). “Ad ogni evento la forma si ricrea. Così, la forma-contenuto non può essere considerata, solo, come forma, né, solo, come contenuto. Questo significa che l’evento, per realizzarsi, si incastra nella forma disponibile più adeguata alla realizzazione delle funzione di cui è portatore. Dall’altro lato, fin dal momento in cui l’evento si esplicita, la forma, l’oggetto che lo accoglie assume un significato differente che nasce da questo incontro. In termini di significato e di realtà, una non può essere intesa senza l’altro, e, di fatto, uno non esiste senza l’altra. Non c’è come vederli separatamente.” (Santos, 1966) Da qui deriva l’importanza attribuita alle pratiche urbane, intese come vere e proprie resistenze al processo egemonico di costruzione della città. Contrapponendoci all’idea di imposizione dall’alto di spazi che accolgano funzioni (relative, chiaramente, alle necessità delle isole dominanti), proponiamo l’utilizzo delle pratiche urbane come elementi primari di trasformazione del territorio. Distanziandoci dalla convinzione che grandi masterplan possano risolvere le problematiche della città senza causare l’appiattimento delle complessità urbane e l’annullamento delle sue molteplici identità, proponiamo un progetto puntuale all’interno del quale il concetto di rete assume un’importanza fondamentale. Miriamo alla costruzione di un “piano di arcipelago” all’interno del quale le reti che uniscono i punti d’intervento rappresentano i ponti che legano un’isola all’altra, intendendo queste reti come “dispositivi che permettano di creare tanto strutture di difesa, quanto strutture più offensive; dispositivi che permettano di creare aperture e contatti, impossibili da realizzare nell’isolamento (quando si è isolati si rimane sprovvisti de mezzi, e la tendenza, in questo caso, è di richiudersi su se stessi per proteggersi). Sono dispositivi vivi, perché incarnati nello stesso tessuto sociale, in relazioni di complementarità, di interazione –infine, in relazioni rizomatiche.” (Guattari, Rolnik, 1996)

TRANS.SSA. Un piano di arcipelago per Salvador

MONDINI, MARIACHIARA;COPA, BLERTA
2013/2014

Abstract

La ricerca presentata all’interno di questo libro nasce dalla nostra esperienza diretta all’interno della città di Salvador de Bahia, Brasile. Questo contesto urbano, completamente diverso da quello a cui eravamo abituate, ha stimolato la nostra volontà di ricerca, partendo dalle origini, nel tentativo di intendere una città costruita sulla base di molteplici influenze, di conflitti, di segregazioni, di sovrapposizioni. Durante l’analisi ci siamo rese conto che, se Salvador si è sviluppata attraverso l’accumulo e la miscela di svariati elementi, altrettante sono le “città nella città” , che si sono formate lungo questo processo, città che “vivono l’una per l’altra, guardandosi negli occhi di continuo, ma non si amano” (Calvino, 1972). Si tratta di una trama, che intreccia tra loro identità culturali, tradizioni, classi sociali e stili di vita completamente diversi tra loro, che trovano nel contesto urbano il loro denominatore comune; è lo spazio della città che, attraverso l’imposizione della sua fisicità, costituisce lo scenario nel quale svariati mondi e infinite storie convivono. Una convivenza, questa, caratterizzata dal conflitto e dalla lotta continua per l’appropriazione dello spazio. In questo contesto, che trova le sue radici nell’ibridazione e nella miscela, i concetti di purezza ed unità propugnati dai nuovi progetti urbani assumono un altro significato, andando a rapprsentare l’imposizione di UNA identità culturale, di UNO stile di vita, di UNA classe sociale, di UN modello economico sugli altri, di un’egemonia sulle varie minoranze che condividono la stessa piattaforma urbana. Da queste premesse nasce la presa di coscienza della necessità di assumere un atteggiamento nuovo rispetto alle problematiche urbane e all’analisi della città in sè, che si contrapponga al processo di produzione urbana dominante, capitanato dalle grandi imprese edili, che porta con sé l’annullamento delle differenze in favore di una fittizia immagine unificata e unificante. La nostra via d’uscita rispetto alla logica della “spettacolarizzazione” degli spazi è rappresentata da un ritorno all’esperienza del quotidiano, dalla volontà di avvicinarci a quelle “città nella città” (che durante il corso del testo andremo a definire come isole) abbandonate, disprezzate, dimenticate, circondate, escluse. L’osservazione dall’interno di questi ambiti e delle loro dinamiche ci porta a una decostruzione di concetti urbanistici ortodossi, come la definizione di pubblico o privato, conseguente all’intendimento dello spazio urbano in quanto intreccio di contesti fisico-ambientali (forma) e socio-politici (contenuto). “Ad ogni evento la forma si ricrea. Così, la forma-contenuto non può essere considerata, solo, come forma, né, solo, come contenuto. Questo significa che l’evento, per realizzarsi, si incastra nella forma disponibile più adeguata alla realizzazione delle funzione di cui è portatore. Dall’altro lato, fin dal momento in cui l’evento si esplicita, la forma, l’oggetto che lo accoglie assume un significato differente che nasce da questo incontro. In termini di significato e di realtà, una non può essere intesa senza l’altro, e, di fatto, uno non esiste senza l’altra. Non c’è come vederli separatamente.” (Santos, 1966) Da qui deriva l’importanza attribuita alle pratiche urbane, intese come vere e proprie resistenze al processo egemonico di costruzione della città. Contrapponendoci all’idea di imposizione dall’alto di spazi che accolgano funzioni (relative, chiaramente, alle necessità delle isole dominanti), proponiamo l’utilizzo delle pratiche urbane come elementi primari di trasformazione del territorio. Distanziandoci dalla convinzione che grandi masterplan possano risolvere le problematiche della città senza causare l’appiattimento delle complessità urbane e l’annullamento delle sue molteplici identità, proponiamo un progetto puntuale all’interno del quale il concetto di rete assume un’importanza fondamentale. Miriamo alla costruzione di un “piano di arcipelago” all’interno del quale le reti che uniscono i punti d’intervento rappresentano i ponti che legano un’isola all’altra, intendendo queste reti come “dispositivi che permettano di creare tanto strutture di difesa, quanto strutture più offensive; dispositivi che permettano di creare aperture e contatti, impossibili da realizzare nell’isolamento (quando si è isolati si rimane sprovvisti de mezzi, e la tendenza, in questo caso, è di richiudersi su se stessi per proteggersi). Sono dispositivi vivi, perché incarnati nello stesso tessuto sociale, in relazioni di complementarità, di interazione –infine, in relazioni rizomatiche.” (Guattari, Rolnik, 1996)
ARC I - Scuola di Architettura e Società
1-ott-2014
2013/2014
Tesi di laurea Magistrale
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/10589/96782