L’Antartide è un continente unico per infinite ragioni. La sua collocazione geografica ne fa il più grande volume di ghiaccio esistente, le condizioni climatiche meravigliosamente ostili, poi, lo rendono l’unico continente quasi disabitato. Quasi. Perché un manipolo di romantici, viaggiatori, pazzi, filosofi, biologi, fisici, reietti ha scelto di trascorrere il resto dei suoi giorni in mezzo ai ghiacci. Ma perché persone così diverse tra loro finiscono per ritrovarsi proprio qui, alla fine del mondo? È difficile dare una risposta. C’è però un filo comune che lega gli avventori del polo e li richiama in questo estremo della mappa. Cosa sia esattamente non è dato saperlo. Si può solo celebrarne la magia. Ancor più degli aspetti sociologici, così sfuggenti e imprevedibili, ciò che rende stimolante un progetto in Antartide è la sua esclusività paesaggistica. Anche il paesaggio, pur riconoscendosi in categorie precise, rifiuta ogni forma di definizione. O meglio, ne accetta una varietà potenzialmente infinita. L’Antartide, nello specifico, è un ghiacciaio enorme sormontato da montagne innevate, ma è anche una scia verde di raggi cosmici che si erge nel buio, un container incastonato nel fango e traboccante di parka rossi, una tenda gialla spazzata dai venti, una caverna sottomarina che si innalza come una cattedrale, immobile e maestosa. Un paesaggio ancestrale, meraviglioso ma anche tremendamente ostile. Così ostile che flora e fauna, pena l’estinzione, hanno scelto di rifugiarsi nelle acque mentre l’uomo più che viverci ci sopravvive. Come gli scienziati dell’Antartide studiano per trovare le risposte agli interrogativi atavici sull’esistenza, così noi ci interroghiamo su cosa significa sopravvivere. Da qui l’idea di capsula errante. La presenza umana sul pianeta non sembra sostenibile, l’esperienza antartica ne è un paradigma. E allora la capsula diventa l’architettura primordiale, il luogo dove ripararsi da tutto, dalle brutture del mondo, dall’imponenza del paesaggio circostante e forse anche da sé stessi. Un progetto è per sua natura una proposta. Una delle tante. La nostra è una celebrazione del tormentato ma esclusivo connubio tra il paesaggio e l’individuo.

Antarctic nomadism : una capsula errante per la sopravvivenza antartica

ALLIEVI, EDOARDO;CONSONNI, ALESSANDRO;CAMANZI, FRANCESCO
2011/2012

Abstract

L’Antartide è un continente unico per infinite ragioni. La sua collocazione geografica ne fa il più grande volume di ghiaccio esistente, le condizioni climatiche meravigliosamente ostili, poi, lo rendono l’unico continente quasi disabitato. Quasi. Perché un manipolo di romantici, viaggiatori, pazzi, filosofi, biologi, fisici, reietti ha scelto di trascorrere il resto dei suoi giorni in mezzo ai ghiacci. Ma perché persone così diverse tra loro finiscono per ritrovarsi proprio qui, alla fine del mondo? È difficile dare una risposta. C’è però un filo comune che lega gli avventori del polo e li richiama in questo estremo della mappa. Cosa sia esattamente non è dato saperlo. Si può solo celebrarne la magia. Ancor più degli aspetti sociologici, così sfuggenti e imprevedibili, ciò che rende stimolante un progetto in Antartide è la sua esclusività paesaggistica. Anche il paesaggio, pur riconoscendosi in categorie precise, rifiuta ogni forma di definizione. O meglio, ne accetta una varietà potenzialmente infinita. L’Antartide, nello specifico, è un ghiacciaio enorme sormontato da montagne innevate, ma è anche una scia verde di raggi cosmici che si erge nel buio, un container incastonato nel fango e traboccante di parka rossi, una tenda gialla spazzata dai venti, una caverna sottomarina che si innalza come una cattedrale, immobile e maestosa. Un paesaggio ancestrale, meraviglioso ma anche tremendamente ostile. Così ostile che flora e fauna, pena l’estinzione, hanno scelto di rifugiarsi nelle acque mentre l’uomo più che viverci ci sopravvive. Come gli scienziati dell’Antartide studiano per trovare le risposte agli interrogativi atavici sull’esistenza, così noi ci interroghiamo su cosa significa sopravvivere. Da qui l’idea di capsula errante. La presenza umana sul pianeta non sembra sostenibile, l’esperienza antartica ne è un paradigma. E allora la capsula diventa l’architettura primordiale, il luogo dove ripararsi da tutto, dalle brutture del mondo, dall’imponenza del paesaggio circostante e forse anche da sé stessi. Un progetto è per sua natura una proposta. Una delle tante. La nostra è una celebrazione del tormentato ma esclusivo connubio tra il paesaggio e l’individuo.
CAVALIERE, FRANCESCO
ARC I - Scuola di Architettura e Società
25-lug-2012
2011/2012
Tesi di laurea Magistrale
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/10589/58362